Gli italiani, per una parte, sono ingenui e politicamente immaturi: ma sono
naturalmente intelligenti e si stanno lentamente rendendo conto da che parte
sta la ragione.
Pier Paolo Pasolini
Non so se per il disco di Reggio Emilia si possa parlare di iniziativa: o per lo meno di normatività di tale iniziativa. Esso è stato un puro caso. Me lo scrive la direttrice di Vie Nuove: “Io ebbi a Reggio Emilia questo nastro da un commesso di un negozio di tessuti, che si era portato lì il registratore, per registrare il comizio: e, invece, finì con il registrare l’agghiacciante sparatoria, non una guerra, ma una fredda carneficina”. Ora io mi auguro che simili carneficine non si ripetano più, mai più, nella nostra vita, che è stata tutta un’esperienza di carneficine: e spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo. Che è il più terribile - e anche profondamente bello - che abbia mai sentito.
Sembra uno scherno: tutti gli esperimenti, estetizzanti, di fare poesia con
la tecnica, con la casualità della materia pura - dalla musica elettronica alla
pittura astratta - appaiono ora come resi ridicoli e penosi proprio da questo
esperimento che, di estetizzante, non ha proprio nulla: nato com’è dal caso, semplice
riproduzione di una “materia pura”, suoni, urli, spari, rumore, la sua bellezza
anche estetica ha momenti sublimi. Perché mai, nemmeno per un istante, la
suggestione estetica si distacca dal suo contenuto. Perciò, penso che questo
disco resterà unico nel suo genere: qualsiasi altro tipo di riproduzione pura e
semplice, preordinata, mi sembra destinata a fallire. Occorre sempre l’elaborazione
intellettuale o stilistica del fatto riprodotto, perché questo abbia valore. I
critici stilistici dicono che ogni opera ha la sua “interazione figurale”:
ossia ogni opera, nell’atto di essere scritta o letta, brano per brano, parola
per parola, si integra in una sua totalità immanente ad essa, in una sua ideale
conclusione che le dà continuamente senso e unità. Così per questo disco - è
atroce dirlo - la interazione figurale, che gli dà quasi una dignità estetica,
è la morte dei giovani lavoratori di Reggio, è la calcolata brutalità della
polizia: fatti che tutti noi sappiamo, e che quindi integrano in noi, con la
loro disperata violenza e con la raggiunta coscienza, le tremende
pregrammaticalità del disco.
Quello che colpisce soprattutto, ascoltando questo disco - oltre all’emozione, oltre la pietà - sono due fatti. Il primo è la freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento. Questo è già stato notato da tutti: e ora capisco come uno dei morenti abbia potuto pronunciare quella frase: “Mi hanno ucciso come sparassero a caccia”. Proprio in questi giorni è di scena Eichmann: egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti che hanno sparato e ucciso saranno simili a quelle già ben note, pur con le debite differenze di atrocità: anch’essi parleranno di ordini, di dovere, ecc. E sono di questi giorni anche certi documenti pubblicati da Paese Sera a proposito delle omissioni del Vaticano durante il periodo delle stragi naziste contro gli ebrei. C’è in tutti questi fatti, un connettivo che li unisce, una atroce somiglianza.
Quello che colpisce soprattutto, ascoltando questo disco - oltre all’emozione, oltre la pietà - sono due fatti. Il primo è la freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento. Questo è già stato notato da tutti: e ora capisco come uno dei morenti abbia potuto pronunciare quella frase: “Mi hanno ucciso come sparassero a caccia”. Proprio in questi giorni è di scena Eichmann: egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti che hanno sparato e ucciso saranno simili a quelle già ben note, pur con le debite differenze di atrocità: anch’essi parleranno di ordini, di dovere, ecc. E sono di questi giorni anche certi documenti pubblicati da Paese Sera a proposito delle omissioni del Vaticano durante il periodo delle stragi naziste contro gli ebrei. C’è in tutti questi fatti, un connettivo che li unisce, una atroce somiglianza.
È vero che, nello stesso tempo, la lotta popolare di Reggio, di Genova, di Roma
autorizza anche a rinnovare e sentire con maggiore forza quella speranza che
sembrava perduta dai giorni della Resistenza: ma ciò non toglie che bisogna
essere lucidi e spietati nel valutare il pericolo. Il capitalismo ha raggiunto
in questi giorni lo stesso grado di potenza e di ferocia che aveva raggiunto
prima della guerra: ed era più pericoloso, perché i moralisti-cattolici sono
meno idioti dei fascisti.
E siamo al secondo fatto che colpisce nel disco di Reggio: cioè la
sensazione netta che a lottare non siano più dei dimostranti italiani e una
polizia italiana, in un doloroso ma normale, direi, momento del processo di
evoluzione della classe operaia: come accadeva per esempio ancora negli eccidi
del primo dopoguerra, a Melissa o a Modena. Si ha l’impressione che si trovino
ora di fronte due schiere quasi estranee: la popolazione di una città che
protesta contro delle truppe occupanti. I poliziotti che sparano non sembrano
nemmeno degli italiani, se questa categoria ha ragione di essere almeno come dato
sentimentale. Tra i lavoratori e la polizia c’è un salto di qualità, di
nazionalità.
Al tempo di Melissa e di Modena, la polizia non era stata ancora riorganizzata: era stata messa insieme un po’ confusamente, era una sezione della “ricostruzione”: essa difendeva genericamente un ordine costituito secondo un canone di lotta tradizionale, che la Resistenza aveva alquanto fiaccato. Ora invece la polizia è perfettamente organizzata, per opera di Scelba e di Tambroni: è un corpo ponderoso, deciso, politicamente orientato e cosciente. Inoltre, come documenta un giornalista, non certo marxista sull’Europeo, Renzo Trionfera, esso è direttamente legata al Vaticano.
La polizia italiana, insomma, si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito?
Io, per me, sono alieno dalla violenza: e spero, lo ripeto, che mai più si debba scendere in piazza, a morire. Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze e di menzogne crollerà: com’è crollata la legge-truffa, com’è crollato il governo Tambroni. Gli italiani, per una parte, sono ingenui e politicamente immaturi: ma sono naturalmente intelligenti e si stanno lentamente rendendo conto da che parte sta la ragione.
Al tempo di Melissa e di Modena, la polizia non era stata ancora riorganizzata: era stata messa insieme un po’ confusamente, era una sezione della “ricostruzione”: essa difendeva genericamente un ordine costituito secondo un canone di lotta tradizionale, che la Resistenza aveva alquanto fiaccato. Ora invece la polizia è perfettamente organizzata, per opera di Scelba e di Tambroni: è un corpo ponderoso, deciso, politicamente orientato e cosciente. Inoltre, come documenta un giornalista, non certo marxista sull’Europeo, Renzo Trionfera, esso è direttamente legata al Vaticano.
La polizia italiana, insomma, si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito?
Io, per me, sono alieno dalla violenza: e spero, lo ripeto, che mai più si debba scendere in piazza, a morire. Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze e di menzogne crollerà: com’è crollata la legge-truffa, com’è crollato il governo Tambroni. Gli italiani, per una parte, sono ingenui e politicamente immaturi: ma sono naturalmente intelligenti e si stanno lentamente rendendo conto da che parte sta la ragione.
Le nuove leve di giovani lo dimostrano.
Pier Paolo Pasolini
Dalla rubrica Dialoghi con Pasolini, Vie
Nuove, a. XV, n. 33, 20 agosto 1960, in Pier Paolo Pasolini, Le belle bandiere: dialoghi 1960-1965, a cura di Gian Carlo Ferretti, Editori
Riuniti, Roma 1977.
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