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Perché lavorare per la CGIL e nella CGIL non è un mestiere come un altro, di Ilaria Romeo

Il 29 novembre del 1988 Bruno Trentin viene eletto segretario generale della CGIL.

Il primo atto della sua Segreteria è la Conferenza programmatica di Chianciano nell’aprile successivo. Trentin rompe gli indugi e illustra il suo progetto, avanzando l’ipotesi di una nuova CGIL, sindacato dei diritti, della solidarietà e del programma ed avviando un processo di autoriforma che proseguirà con la Conferenza di organizzazione di Firenze del novembre 1989 ed il Congresso di Rimini del 1991 per concludersi nel giugno 1994 a Chianciano con la seconda Conferenza programmatica della Confederazione.

“Un rinnovamento dei gruppi dirigenti della CGIL e del loro metodo di lavoro – affermava Trentin nell’aprile 1989 – è possibile e necessario: io avverto questo problema come il compito principale che mi incombe […] Ma non aspettatevi da me un rinnovamento degli uomini separato da un rinnovamento delle politiche, del programma, e della strategia della nostra organizzazione. E non aspettatevi da me il ruolo di un mediatore fra fazioni. Sono e rimarrò, credo, fino alla mia morte, uno dei pochi o dei molti illusi che ritengono che il rinnovamento dei gruppi dirigenti cammina con la coerenza delle idee, con l’assunzione delle responsabilità, con il coraggio della proposta e del progetto. E ciò, proprio perché sono convinto che presto o tardi, con la forza delle idee e delle proposte anche le forze culturalmente minoritarie di oggi, se dimostrano coerenza e rigore, possono diventare maggioranza domani ed essere davvero il futuro della nostra organizzazione […] C’è bisogno, specialmente oggi, di una deontologia del sindacato che dia credibilità e certezze ai lavoratori e che lanci ai giovani che vogliono cimentarsi con questa prova il messaggio che lavorare per la CGIL e nella CGIL non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”.

Del resto già nel 1957 affermava Giuseppe Di Vittorio nel suo ultimo discorso al convegno dei dirigenti e degli attivisti della Camera del Lavoro di Lecco: “La nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici […] Lavorate sodo, dunque, e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra CGIL, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere”.

Nel giugno 1994 si chiude a Chianciano la seconda Conferenza programmatica della CGIL.  Bruno Trentin lascia la direzione della Confederazione, “quella CGIL che conosco bene – affermerà nuovamente – e di cui lascio la direzione con un sentimento di infinita riconoscenza […] un sindacato di donne e di uomini che si interroga sempre sulle proprie scelte e anche sui propri errori, che cerca di apprendere dagli altri per trovare tutte le energie che gli consentano di decidere, di agire, ma anche di continuare a rinnovarsi, di dimostrare con i fatti la sua capacità di cambiare e di aprirsi a tutte le esperienze vitali e a tutti i fenomeni di democrazia che covano ora e che covano sempre nel mondo dei lavoratori”.

In un messaggio di saluto non meno famoso affermava Luciano Lama nel 1986: “Compagni, non abbiate paura delle novità, non rifiutate la realtà perché vi presenta incognite nuove e non corrisponde a schemi tradizionali, comodi ma ingannevoli, non rinunciate alle vostre idee almeno finché non ne riconoscete altre migliori! E in quel momento ditelo! Perché un dirigente sindacale è un uomo come gli altri e se in quel momento gli altri lo riconosceranno capiranno anche gli errori. So bene che questo metodo comporta anche il rischio di pagare dei prezzi, ma non c’è prezzo più alto che la verità: in una grande organizzazione, pluralistica e complessa nella ideologia e nella condizione culturale e sociale dei suoi stessi aderenti, il libero confronto, il coraggio delle proprie posizioni sono lievito indispensabile, un contributo al miglioramento delle politiche, alla ricerca collettiva della strada giusta. Io stesso nei momenti di scelta ho fatto molto discutere, anche in preparazione di questo Congresso, e di ciò mi si è talvolta mosso rimprovero. Ma il mondo del lavoro non è un corpo separato, esso è parte essenziale della società, una forza popolare che esprime volontà, alimenta speranze, plasma coscienze. E tanto più il nostro disegno diventa ambizioso e il cambiare riguarda noi e l’intera società, tanto più dobbiamo sentire su di noi incombere l’obbligo di essere chiari con noi e con gli altri, anche per conquistare altri ceti e forze alle nostre idee, ai nostri programmi. Innalzare intorno a noi, in nome di una asettica purezza, una sorta di cordone sanitario significherebbe condannare alla sterilità ogni sforzo di cambiamento, e una vera politica alternativa di sviluppo che garantisca lavoro ai giovani e alla gente del Sud presuppone cambiamenti così profondi nell’uso delle risorse e nel governo del Paese da esigere, con un libero confronto, una vasta ricerca di convergenze e di sforzi”.

“Ecco perché abbiamo bisogno di affrontare in modo completamente diverso il problema della rappresentanza del sindacato – dirà nel 2006 Bruno Trentin nel suo ultimo discorso pubblico – Non si tratta di organizzare un sindacato dei precari, di accettare come fatali delle divisioni che si stanno incrostando nella società, si tratta di assumere come dato centrale i problemi della persona e di costruire su questi problemi una nuova solidarietà. Non è l’aumento salariale uguale per tutti, che fa parte di un’altra epoca e corrisponde a un’estrema varietà di situazioni professionali e salariali, che può risolvere il problema. Non sono le 35 ore uguali per tutti di fronte a una enorme diversità di situazioni che vanno dal laboratorio scientifico alla catena di montaggio. Tanto è vero che su queste parole d’ordine che abbiamo cercato a volte di sposare non siamo riusciti a costruire un minimo di solidarietà fra i lavoratori cosiddetti tradizionali occupati e i giovani in modo particolare senza professionalità esclusi da una capacità di contrattare il loro inserimento nel lavoro. No la nuova solidarietà non si costruisce più sul salario uguale o sull’orario uguale perché le persone sono diverse, perché le persone sono delle entità assolutamente inconfondibili con altre, ecco perché soltanto sui diritti individuali noi possiamo immaginare di costruire una nuova solidarietà e una nuova rappresentanza del sindacato basata su questa solidarietà. Una rappresentanza non più di ceti, di classi, ma di individui che nel sindacato attraverso un’esperienza solidale diventino persone coscienti, capaci di decidere e di ritrovare nei diritti degli altri il sostegno alla singola battaglia loro. Si tratta oggi, come per gli immigrati, di rompere le barriere, i ghetti, quelli dei centri di prima accoglienza come quelli delle case lavoro o degli ospedali dei cinesi a Prato. Tutte forme e sotto forme di oppressione dell’individuo, della persona, di negazione di una libertà di scelta individuale. Solo cosi è possibile, io credo, liberare la persona da una solitudine che nega la sua libertà perché nega il suo rapporto con gli altri”.

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