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Donne nella scienza - di Ilaria Romeo

Il 18 maggio 1953  Jacqueline Cochran diventa la prima donna a superare la barriera del suono volando con un F-86 Sabrejet ad una velocità media di 1.049,83 km/h.
Anche se nell’immaginario collettivo lo scienziato è un uomo con il camice bianco ed i capelli all’insù, le donne hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo scientifico fin dall’antichità firmando le scoperte più importanti del secolo.
Da Marie Sklodwska Curie a Rosalind Franklin; da Rita Levi Montalcini a Margherita Hack; da Lise Meitner a Wu Chieng-Shiung; da Caroline Herschel a Cecilia Payne Gaposchkin, il loro elenco potrebbe essere infinito. 
Ma solo quaranta donne hanno ricevuto il Nobel tra il 1901 e il 2010 (Marie Curie, prima donna ‘professore’ alla Sorbona e prima donna a ricevere un Premio Nobel nel 1903 ne otterrà un altro nel 1911 per i suoi studi sulla radioattività) ed oggi meno del 30% dei ricercatori in tutto il mondo è di genere femminile.
Eppure se questa crisi ha avuto un sesso forte - definizione che ci ha sempre infastidito - è stato proprio quello femminile, anche se come sempre si tende a non ammetterlo e soprattutto a non riconoscerlo nei fatti e nelle decisioni (la composizione della task force quasi tutta al maschile ne è solo l’ennesimo, tristissimo esempio).
Dati alla mano, le donne sono risultate più resistenti degli uomini all’attacco del virus e  anche se colpite, sono guarite di più.
Donne sono state molte delle lavoratrici essenziali che hanno continuato a fornire merci e servizi ad un’Italia sempre più prostrata e sono state tre donne all’inizio del febbraio scorso le protagoniste dell’impresa dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di isolare il nuovo Coronavirus per la prima volta in Europa, la terza volta al mondo.
Tre scienziate (non angeli della scienza!) tutte meridionali, una precaria che con la loro impresa hanno segnato una svolta nella lotta al virus che ha consentito di sviluppare nuove terapie e tentare la strada per un possibile vaccino.
Del resto i paesi con donne al comando sono stati - è dimostrato - più efficaci nella lotta al virus, riuscendo a dare risposte più tempestive, organizzate ed efficaci per difendere i propri cittadini e la tenuta dei propri sistemi sanitari. La Germania di Angela Merkel, la Nuova Zelanda di Jacinta Ardern, Taiwan guidata dalla presidente Tsai Ing-wen, la Finlandia di Sanna Marin, la premier più giovane del mondo. E la sensazione viene confermata se si guarda a Norvegia, Danimarca ed Islanda, tutte guidate da donne, dove si registra il tasso di decessi per il virus più basso d’Europa (la Svezia, unico Paese dell’area guidato da un uomo, ha ampiamente superato la soglia psicologica dei mille morti). 
Nel frattempo in Italia, dopo essere state escluse dal Comitato scientifico del Governo ed essere state coinvolte in numero ridicolo nella task forse della ripartenza (situazione solo in parte rientrata dopo giorni di polemiche e lotta) le donne, in una storia che sembra ripetersi all’infinito, rimangono a casa.
Un Paese d’altri tempi, quello del 4 maggio, nel quale a tornare al lavoro è stato il 72,4 per cento uomini.
Perché quando c’è da decidere chi deve fare un passo indietro per occuparsi dei figli che non vanno a scuola, la decisione in pratica è già presa: le donne.
Sempre meno a lavorare e sempre meno a cercare lavoro in un paese in cui la percentuale di occupazione femminile, già bassissima, rischia di crollare.
Ma non doveva andare tutto bene?

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