Passa ai contenuti principali

Anna Frank avrebbe compiuto 90 anni, il suo diario simbolo di una vita


Il 12 giugno 2019 Anna Frank avrebbe compiuto 90 anni.
E’ invece morta di tifo a soli 15 anni nel febbraio 1945 nel lager di Bergen - Belsen.
Ebrea tedesca, si era rifugiata con la famiglia ad Amsterdam nel tentativo di salvarsi dalle persecuzioni della Germania nazista.
Lì per due anni scrisse un diario, divenuto simbolo della Shoah.
Nella prefazione alla edizione del 1959 (Arnoldo Mondadori Editore, traduzione di Arrigo Vita) scriveva Natalia Ginzburg:

“Il diario di Anna Frank ha inizio nel giugno 1942. Nel giugno ‘42, la sua vita presenta ancora qualche rassomiglianza con la vita d’una qualunque ragazzina dell’età sua. Ma siamo ad Amsterdam, l’Olanda è in mano ai tedeschi da due anni; e le S.S. vanno per le case cercando gli ebrei. A tredici anni appena compiuti Anna conosce e parla con estrema naturalezza il linguaggio dei perseguitati: sa che lei e i suoi debbon portare la stella giudaica, che non possono frequentare locali pubblici, che non possono prendere il tram. Dall’invasione tedesca ‘i bei tempi sono finiti’, scrive Anna nel suo diario; ma ‘finora per noi quattro è andato discretamente bene’. La guerra, le privazioni alimentari, i tedeschi e il pericolo, tutto questo Anna nel giugno ‘42 può ancora dimenticarselo ogni tanto, e vivere abbastanza gioiosamente mangiando gelati, volteggiando in bicicletta, flirtando con i compagni, studiando la mitologia greca; fino al giorno in cui tutta la famiglia Frank si trasferisce nell' ‘alloggio segreto’, per sfuggire ai tedeschi e tentare di salvarsi. Dopo la lettura del diario di Anna e della breve nota che lo conclude (gli abitanti dell' ‘alloggio segreto’ non si sono salvati), questo ‘alloggio segreto’ con le sue scale e scalette e le stanze buie dai fitti tappeti e i massicci mobili d’ufficio mischiati alle masserizie, ci sta davanti con una forza ossessiva, come una grande trappola: per due anni, la famiglia Frank, la famiglia Van Daan e il dentista Dussel vi hanno abitato senza uscirne mai, senza mai affacciarsi alle finestre, visitati soltanto dai fedeli amici che conoscono il segreto dello scaffale girevole, che portano dall’esterno cibo, libri, notizie; vi hanno abitato raschiando e cucinando patate, litigando, ascoltando la radio inglese, fra alternative di paura e speranza; ossessionati dalle privazioni alimentari, dalla noia, dai mille problemi d’una forzata clausura; in questa attesa di adulti snervati che un nulla fa trasalire, Anna è venuta a trovarsi con i suoi propri problemi di ragazzina che cresce e che si trasforma, inevitabilmente sentendosi soffocare fra la mancanza d’aria libera e questi monotoni discorsi d’adulti; sentendosi incompresa e abbandonata a se stessa, con la sua propria paura e la sua propria noia, fra la noia e la paura degli altri. Nel diario, ora si lamenta con quella voluttà di lamentarsi che è propria degli adolescenti, ora critica aspramente i sistemi di educazione dei suoi (‘non mi trattano mai in modo uguale’). Ora è in rotta con i suoi e con gli altri abitanti dell’ ‘alloggio segreto’, le sembra di odiare sua madre e ne è stupefatta, ora, di nuovo docile e allegra, di colpo, riconciliata con l’esistenza, torna a far parte della piccola comunità e il suo diario è di nuovo fedele cronaca quotidiana, è il giornale di bordo di questa nave immobile nel centro di Amsterdam, che naufraga lentamente senza saperlo. Anna ha un’intelligenza penetrante e precoce; un occhio critico a cui non sfugge nulla. Ha il dono dell’ironia, la facoltà di raccontare cogliendo le cose nella loro sostanza. Nelle sue mani, il diario diventa dunque lo specchio fedele della vita di questa piccola comunità in clausura: una comunità ben definita e riconoscibile in ogni suo particolare sociale, individuata con costante freschezza; a nessuno è risparmiato l’aspro giudizio di Anna, eppure tutti appaiono nella loro sostanza umana più indifesa e pietosa, e li sentiamo così vicini a noi che a lungo li seguiamo col pensiero oltre le pagine del diario, nei campi dove sono morti. Sono ebrei benestanti, che hanno avuto in passato una vasta rete di affari e di conoscenze, e abitudini di vita piacevole e comoda: e tuttavia né tali abitudini né il denaro li hanno provveduti di quella sicurezza, di quel senso di stabilità cieca e incrollabile che è proprio di chi appartiene al loro stesso gruppo sociale, perché gli ebrei della Mittel-Europa hanno nel sangue il senso della persecuzione, del terreno malfermo, del pericolo. Irrequieti e dolenti anche nei tempi sereni, essi si adattano senza fatica alla condizione più disagiata e pericolosa; dolendosi, ma senza stupore, ritrovando forse nelle loro più antiche memorie vetrine di negozi infrante, quartieri devastati e incendiati. Ma questo adattamento alla miseria o al pericolo, è nella famiglia di Anna e nei suoi amici Van Daan l’unica forza: perché essi hanno poi tutta l’infantilità, tutto il puerile attaccamento alle cose futili che è proprio di chi è spinto nel pericolo senza una vera coscienza responsabile, senza una fede. E l’insofferenza di Anna per quanti la circondano proviene forse proprio da questo, senza che lei stessa se ne renda conto chiaramente: lei, sola bambina tra adulti, si sente in verità la sola adulta, la sola che in qualche modo si disponga a morire: la sola che cerchi nel pensiero della morte qualcosa che non sia puramente orrore o pena: la sola che cerchi di guardare oltre a sé, che spinga il proprio pensiero fuori della monotona vicenda di speranza e paura: la sola che cerchi nella propria storia un significato universale. Il libro di Anna Frank, noi lo leggiamo sempre tenendo presente la sua tragica conclusione; senza poterci fermare a quei precisi momenti che vi son raccontati, ma sempre guardando oltre, sempre cercando di figurarci quel campo di Bergen Belsen, dove Anna è morta, e quegli otto mesi che ha trascorso là, prima della morte, certo penosamente ricordando l’ ‘alloggio segreto’, l’idillio con il ragazzo Peter, i gattini, le feste per i compleanni, le amiche Elli e Miep che fino all’ultimo han rischiato la vita per la salvezza di lei e dei suoi; tutto questo, mentre leggiamo, ci sta davanti così come Anna deve averlo rievocato in quegli otto mesi, tutti i due anni del’ ‘alloggio segreto’ così come saranno riapparsi a lei e agli altri quel mattino sul camion, fra i tedeschi che li portavano via, quei due anni strappati ai tedeschi e vissuti a insaputa dei tedeschi, di frodo, quei due anni che hanno consentito ad Anna Frank di scrivere il suo diario. “E’ un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità”. Così scrive Anna, pochi giorni prima che i tedeschi irrompano nell’ ‘alloggio segreto’; e sono parole come queste, sono pagine come queste che fanno del suo diario qualcosa di più d’un semplice documento umano; sono pagine come queste che ci fanno tornare a questo libro vincendo la pietosa emozione che ci dà l’innocente e garrula voce a cui fu imposto silenzio. Di questa voce, noi serbiamo nella memoria la vibrazione fiduciosa e serena, la bontà coraggiosa che ha superato la morte”.

La politica antiebraica italiana provocherà tra emigrazioni, fughe, uccisioni e deportazioni un calo della popolazione ebraica del 48%.
Se si considera solamente il tasso dei morti tra l’inizio del regime della Rsi e dell’occupazione tedesca e la fine della guerra (settembre 1943 - aprile 1945) la perdita rappresenta il 22,5%. 
Citando Primo Levi “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare” e “le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.


Commenti

Post popolari in questo blog

Perché l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano, siano esse streghe o siano esse libere

Ve le ricordate “le due Simone”? Simona Pari e Simona Torretta, rapite nel 2004 a Baghdad nella sede della Ong per cui lavoravano e rientrate a Fiumicino dopo cinque mesi e mezzo di prigionia. “Oche gulive” le definì un giornale (volutamente con l’articolo indeterminativo e la g minuscola!) commentando il desiderio delle due ragazze di ritornare alla loro vita normale precedente il rapimento. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze italiane rapite in Siria più o meno dieci anni dopo, ve le ricordate? Ve le ricordate ancora Carola Rackete, Greta Thunberg, Laura Boldrini, da ultima Giovanna Botteri? Cosa hanno in comune queste donne? Probabilmente tante cose, probabilmente nulla, ma una è talmente evidente da non poter non essere notata: sono state tutte, senza pietà e senza rispetto, lapidate sul web. Perché verrebbe da chiedersi? E la risposta che sono riuscita a darmi è solamente una: perché sono donne indipendenti, nel senso più vero ed intimo della parola. An

Franca Rame, Lo stupro

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore… Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare. Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando. Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso? Non lo so. È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me l

Nel suo volto la storia dei cafoni

Pepite d’Archivio: ancora Gianni Rodari su Giuseppe Di Vittorio in un NUOVO, bellissimo testo da leggere tutto d’un fiato. Il brano, recuperato da Ilaria Romeo (responsabile dell’Archivio storico CGIL nazionale che lo conserva)  è tratto da «Paese Sera» del 3 novembre 1977 “Il 3 novembre del 1957 moriva a Lecco, dove si era recato per inaugurare la sede della Camera del lavoro, Giuseppe Di Vittorio. Ricordo la commozione di quelle ore, mentre la salma veniva trasportata a Roma per i funerali. Ricordo quei funerali. Roma ne ha conosciuti di più grandiosi. Quello di Togliatti, anni dopo, ebbe le proporzioni di una gigantesca manifestazione di forza. Ma non si è mai vista tanta gente piangere come ai funerali di Di Vittorio. Anche molti carabinieri del servizio d’ordine avevano le lacrime agli occhi. La cosa non stupiva. Di Vittorio non era stato solo il capo della Cgil e per lunghi anni un dirigente tra i più popolari del Pci: era diventato un uomo di tutti, stava nel cuore de