di Ilaria Romeo, pubblicato su Rassegna Sindacale il 26 ottobre
2016 ore 18.29
Fu Di Vittorio, a giudizio dell’ex leader della Fiom, l’artefice della
svolta in casa Cgil. Dopo la reprimenda del partito, scrive con Adriano Guerra
in un libro del 1997, “era ferito e umiliato. Credo che si sia trovato di
fronte a un aut aut drammatico”
Il 23 ottobre 1956 a Budapest scoppia una rivolta
antisovietica. Il 27, di fronte alla decisione di Mosca di intervenire
militarmente in Ungheria, la segreteria della Cgil emette un
comunicato di condanna dell’invasione che susciterà forti malumori nel Pci
e critiche soprattutto nei confronti di Giuseppe Di Vittorio. Abbiamo ricostruito alcuni giorni
fa lo scontro tra Togliatti e l’allora segretario
generale della confederazione, ma resta in parte ancora da approfondire la posizione sulla vicenda di
Bruno Trentin, in un momento particolare della storia della sinistra italiana.
Schierato apertamente dalla parte di Giuseppe Di Vittorio, Trentin è in quegli anni tra i
protagonisti della battaglia per il rinnovamento della cellula comunista della
Cgil, non facendo mancare una forte solidarietà politica nei confronti delle
posizioni assunte da Antonio Giolitti nell’ambito dell’VIII congresso del Pci.
Nel 1995 l’ex segretario generale di Fiom e Cgil ricorda in una bella
intervista al giornalista de L’Unità Bruno Ugolini: “Basti pensare
alla vera e propria rottura che venne a crearsi fra Cgil e Pci al momento dei
fatti d’Ungheria, con la rivolta degli operai schiacciata nel sangue. E prima
del ’56, quindi prima del krusciovismo, c’erano stati gli scioperi in Polonia”.
Di Vittorio, ricorda Trentin, aveva preso una
posizione molto forte, “in
contrasto aperto, tra l’altro, con la Federazione sindacale mondiale a cui la
Cgil allora aderiva. Aveva espresso una critica durissima verso i sindacati
polacchi, rimasti inerti e passivi di fronte alle manifestazioni dei
lavoratori. La posizione assunta poi dalla Cgil sui fatti di Ungheria venne
sostenuta da Di Vittorio in un contrasto lacerante con il partito, con lo
stesso Togliatti. […] Non ci fu mai una riunione nazionale di corrente che
affrontasse approfonditamente questi temi. C’era, come in molte altre sedi
della Cgil, una cellula nella sede di corso d’Italia di cui ero diventato
segretario io stesso, dopo l’assemblea congressuale tenuta nell’autunno del
1956, alla vigilia del congresso nazionale del Pci. C’era stato uno
sconvolgimento, un cambio di maggioranza. Quel congresso di cellula venne
svolto tutto sui fatti d’Ungheria, con la partecipazione dei funzionari della
Cgil e dei dirigenti confederali. E si schierò a grande maggioranza sulle
posizioni di Di Vittorio, non su quelle della direzione del Pci” (B. Trentin, “Il coraggio
dell’utopia. La sinistra e il sindacato dopo il taylorismo. Un’intervista di B.
Ugolini”, Roma,
1995, p. 185-186).
Ricorda ancora Trentin: “Al congresso della
federazione romana ero uno dei candidati al comitato federale come portatore delle posizioni
che maturavano nella Cgil. Amendola contestò la mia candidatura, sostenendo fra
l’altro che dovevo tornarmene in Veneto e che quindi sarebbe stato assurdo
eleggermi. Quello che conta di più è il fatto che siamo stati convocati dalla
direzione del partito come gruppo dirigente della cellula, all’incirca dopo una
settimana dalla presa di posizione di Di Vittorio nella Cgil. Di Vittorio non
partecipava alle riunioni di cellula, ma partecipò a questa riunione della
direzione. Erano presenti Amendola e Alicata che attaccarono con molta veemenza
le posizioni della Cgil e il comportamento di Di Vittorio; mentre Longo, che
presiedeva la riunione, fungeva da elemento equilibratore”.
Longo, prosegue Trentin, “denunciò le nostre posizioni
come un errore, ma che
nasceva più da leggerezza che da altro […]. La riunione era stata convocata
dopo la direzione, per mettere in riga la cellula. Le normali riunioni della
cellula avvenivano in Cgil ed erano pubbliche. Si discuteva molto di partito e
di sindacato, in una commistione naturale. C’erano in quel momento dirigenti
gloriosi che lasciavano la mano senza neanche grandi battaglie. Ricordo che il
segretario della cellula della Cgil prima della svolta del ’56 era Parodi (vale
a dire Gramsci e i Consigli di fabbrica!), che lasciò perché la svolta lo aveva
spiazzato. Non credo che la presa di posizione della Cgil sia nata
dall’adesione di Di Vittorio a una proposta di Santi. In primo luogo Di
Vittorio non ha mai aderito a nulla: era anche un suo terribile difetto, appena
gli portavi un foglio di carta cominciava subito a riscrivere tutto. Secondo,
in quei giorni avevo modo di parlare con lui quasi quotidianamente e conoscevo
la sua posizione. Terzo, Santi, che era una persona straordinaria, non era a
mio parere un fulmine di guerra su questioni del genere; era preoccupato forse
anche più di Di Vittorio dell’unita interna della Cgil”.
Fu dunque proprio Di Vittorio, a giudizio di Trentin,
l’artefice della svolta. “Dopo quella riunione l’ho trovato molto provato umanamente – scrive con
Adriano Guerra in Di Vittorio e l’ombra di Stalin (Ediesse 1997, pp. 205-206) –:
un uomo, se non stroncato, ferito e umiliato. Credo che si sia trovato di
fronte a un aut aut drammatico. Al successivo direttivo della Cgil,
Di Vittorio dichiarò che aveva dovuto tener conto delle esigenze unitarie
interne alla Cgil. Non era una ritrattazione, perché non sconfessava il
documento, ma sosteneva che esso non corrispondeva alla posizione dei comunisti
[…]. A riprova del carattere compromissorio e transitorio di questa presa di
posizione sta l’intervento di Di Vittorio al congresso del partito, in cui non
ritorna sugli errori eventualmente commessi a proposito dell’intervento
militare in Ungheria, ma rilancia la tematica del sindacato nei paesi
socialisti e del superamento della cinghia di trasmissione”.
All’VIII congresso del Pci (Roma, 8-14 dicembre 1956), il delegato di Cuneo Antonio
Giolitti denuncia l’impossibilità di continuare a definire legittimo,
democratico e socialista “un governo come quello contro cui è insorto il popolo
di Budapest”, definendo “ingiustificabile l’intervento sovietico in base ai
principi del socialismo”. Nel luglio successivo Giolitti, date le reazioni del
Pci alle sue affermazioni, sente che i margini di discussione all’interno del
partito sono diventati troppo ristretti e spedisce la sua lettera di
dimissioni, pregando che sia pubblicata entro il 24 dello stesso mese.
Seppure molto sensibile alle posizioni di Giolitti,
Trentin è nettamente contrario alla sua decisione di abbandonare il Pci,
ritenuta un passo indietro rispetto a una battaglia politica che è invece
possibile sostenere all’interno del partito. La corrispondenza tra Trentin e
Giolitti sull’argomento è conservata nell’Archivio storico della Cgil
nazionale, Fondo Bruno Trentin (III), fasc. 7, e in Fondazione Lelio e Lisli
Basso, Fondo Antonio Giolitti, “Lettera di Bruno Trentin a Antonio Giolitti”,
23 luglio 1957, scatola 12, fasc. 5.
“Ti scrivo ora, un po’ confusamente, le prime cose che
sento di doverti dire, ancora
sotto l’influsso del dolore che la tua decisione ha provocato in me [...] –
scrive a caldo Trentin il 23 luglio –. Mi trovo così ancora smarrito e confuso,
fra la tristezza, la consapevolezza che la tua scelta è stata dettata da
sentimenti nobili e comunque rispettabili e una sorta di rabbia – vedi, ti
parlo a cuore aperto – per il significato politico che la tua scelta viene a
prendere. [...] Lo sapevi; non posso condividere la tua decisione: né per il
suo contenuto sostanziale (la sfiducia nelle possibilità intrinseche di
rinnovamento del partito) né per il quadro politico in cui esso nasce (per cui
essa si profila in paradossale contrasto con i recenti avvenimenti dell’Urss e
le loro storiche, inevitabili, conseguenze) né per le conclusioni che essa
comporta […]. Su di te, bene e male, ricadeva in buona parte, il peso di una
battaglia conseguente per il rinnovamento del partito”.
“Le tue dimissioni – prosegue nella sua lettera
Trentin – non
comportano quindi soltanto un declino di questa responsabilità. Esse vengono ad
affermare una cosa non vera e non accettabile: la impossibilità di assumerle
nell’ambito del partito […]. Antonio, so che capirai come la passione polemica,
la rabbia che ho lasciato esprimere in questa lettera, sono proprio la migliore
e più dura testimonianza dei sentimenti che mi legano a te. Tu conosci, nel mio
comportamento, la stima e l’amicizia che io provo nei tuoi confronti. Sono
sicuro quindi che capirai come soltanto con questa franchezza, con questa libera
testimonianza del mio dolore e del mio dissenso, può rimanere salda la nostra
amicizia e le nostre future possibilità di autentico incontro, nelle quali non
dispererò mai”.
Trentin torna a scrivere a Giolitti il 9 agosto di
quel 1957: “Caro
Antonio, domani parto per la montagna, con la speranza di riposarmi un po’.
Prima di lasciare Roma, voglio mandarti il segno della mia presenza e del mio
immutato affetto. Comprendo perfettamente le ragioni del tuo silenzio. Voglio
solo sperare che tu abbia interpretato la mia lettera per quello che era. Oggi,
è chiaro, parlerei con te in ben altro modo. Essa rimane una testimonianza: di
un momento e di una reazione, che allora dovevo esprimerti per gli stessi
impegni di lealtà che non sono mai venuti meno fra noi”.
Ilaria Romeo è la responsabile dell’Archivio storico
Cgil nazionale
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