Università Ca' Foscari
Venezia,
13 settembre 2002
Lavoro e conoscenza
Discorso per la laurea honoris causa a Bruno Trentin
13 settembre 2002
Lavoro e conoscenza
Discorso per la laurea honoris causa a Bruno Trentin
Magnifico Rettore, Signore Preside della Facoltà di Economia e Commercio, signori
membri del Consiglio di Facoltà Dott. Beggio e Dott. Malgara, Signore e Signori, cari amici,
Voi potete comprendere la mia emozione, in questo momento, non solo per l’onore che mi
fate, forse impropriamente, con questa laurea, ma per la scelta che avete compiuto di
tenere questa riunione nell’aula che porta il nome di mio padre.
Sono stato sempre restio a parlare di lui pubblicamente, per il rispetto e la riconoscenza
che gli debbo. E non cambierò oggi il mio atteggiamento. Voglio soltanto testimoniare che
quel poco di valido e di utile che ho saputo produrre nel corso della mia lunga vita, lo
debbo interamente al suo insegnamento e al suo esempio; alla sua radicale incapacità di
separare l’etica della politica dalla propria morale quotidiana, pagando sempre di persona
per i propri convincimenti.
Il tema di questo mio intervento riguarda il rapporto fra lavoro e conoscenza.
L’ho scelto perché mi sembra che in questo straordinario intreccio che può portare il lavoro
a divenire sempre più conoscenza e quindi capacità di scelta e, quindi, creatività e libertà,
proprio perché si tratta soltanto di una potenzialità, di un esito possibile ma non certo,
delle trasformazioni in atto nelle economie e nella società contemporanea, sta la più
grande sfida che si presenta al mondo all’inizio di questo secolo.
La sfida che può portare a sconfiggere le vecchie e nuove disuguaglianze, e le varie forme
di miseria che dipendono soprattutto dall’esclusione di miliardi di persone da una comunità
condivisa.
LAVORO E CONOSCENZA
1. Non si può dire però che la grande trasformazione del lavoro e del mercato del lavoro,
che ha preso le mosse dal salto di qualità registrato, negli anni ’70-’80 del secolo scorso,
dalla rivoluzione delle tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni e dai processi di
mondializzazione degli scambi, dei saperi e delle conoscenze, abbia trovato, sin dai suoi
inizi, una puntuale interpretazione nella letteratura economica e sociale.
Pochi sono stati gli osservatori che compresero come Robert Reich che ci trovavamo di
fronte ad un processo che, con le sue contraddizioni e disuguaglianze su scala nazionale
e su scala mondiale, comportava, non di meno, il tramonto dei modelli fordisti di produzioni
rigide e di massa e di un mutamento dell’apporto che il lavoro recava alla ricchezza delle
nazioni.
Molti furono invece gli apologeti acritici di una società post moderna. Come molti furono i
profeti di sventura. Ebbe infatti una grande fortuna in Europa e in Italia (come avvenne già
nel secondo dopoguerra, di fronte ai processi di automazione della produzione di massa)
una letteratura catastrofica e liquidatoria che ha avuto un forte peso sull’opinione pubblica
e sulla cultura politica del tempo. Gli anni ’80 e ’90 furono gli anni in cui ebbe un successo
insolito "best sellers" come "La fine del lavoro" di Jeremy Rifkin, "Il lavoro, un valore in via
di scomparsa" di Dominique Meda, o, per il grosso pubblico, "L’orrore economico" di una
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scrittrice di romanzi, Viviane Forrester. Questi testi e tanti loro sottoprodotti sembravano
dettare i contenuti e le forme di una fine della storia e, per le forze socialiste ed i sindacati,
della fine di qualsiasi progetto di società che avesse come uno dei soggetti il mondo del
lavoro, le classi lavoratrici.
Fu questo, io ritengo, il successo di questa letteratura, uno dei segni più manifesti del
ritardo con il quale gran parte della cultura politica europea percepì la qualità del grande
cambiamento che segnò la fine dell’era fordista nella seconda metà del secolo scorso.
Non di fine del lavoro si trattava, ma, paradossalmente, nella fase in cui si succedevano i
processi di ristrutturazione e di licenziamento di massa, di un’espansione su scala
mondiale di tutte le forme di lavoro, a cominciare da quello subordinato e da quello
salariato, con un ritmo che non era stato mai raggiunto in passato. Non di fine del lavoro
come entità e come valore, si trattava ma di un cambiamento del lavoro e dei rapporti di
lavoro e del ruolo che il lavoro svolgeva nell’economia e nelle società dei paesi coinvolti
nei processi di mondializzazione. Un cambiamento del lavoro che riguardava, certamente,
soprattutto una minoranza, sia pure in forte progresso, dei prestatori d’opera, ma i cui
effetti erano tali da investire anche i meno professionalizzati dei lavori esecutivi, e che
riproponeva, per un numero crescente di donne e di uomini, il lavoro come fattore di
identità; certo, uno dei fattori di identità, della persona umana.
2. Infatti la qualità e la creatività del lavoro si sono riproposti non solo come la condizione
della ricchezza delle nazioni come sostiene Robert Reich ma come fattore insostituibile
della competitività delle imprese. Sempre più fallimentare appare una strategia
dell’impresa che punti non alla valorizzazione del lavoro ma alla sua svalorizzazione, alla
pura e semplice riduzione del suo costo per competere con le economie meno progredite
del pianeta e per ribadire il carattere meramente esecutivo di gran parte del lavoro
salariato; per salvaguardare il mito del lavoro come appendice cieca di una classe
manageriale pensante.
L’uso flessibile delle nuove tecnologie, il mutamento, che ne discende, nei rapporti fra
produzione e mercato, la frequenza del tasso di innovazione e l’invecchiamento rapido
delle tecnologie e delle competenze, la necessità di compensarle con l’innovazione e la
conoscenza, la responsabilizzazione del lavoro esecutivo per garantire la qualità dei
risultati faranno, infatti, del lavoro stesso, almeno nelle attività più innovative, il primo
fattore di competitività dell’impresa.
Ed essi segneranno il tramonto dello stesso concetto di "Lavoro astratto", senza qualità, –
l’idea di Marx e il parametro del fordismo- per fare del lavoro concreto, del lavoro pensato
e, quindi, della persona che lavora, il punto di riferimento di una nuova divisione del lavoro
e di una nuova organizzazione dell’impresa stessa.
E questa la tendenza sempre più prepotente che unifica, in qualche modo, (anche per i
nuovi bisogni di sicurezza che le trasformazioni in atto comportano), un mondo del lavoro
sempre più disarticolato nelle sue forme contrattuali e persino nelle sue culture; un mondo
del lavoro che vive sempre più un processo di contaminazione fra i vincoli di un lavoro
subordinato e gli spazi di libertà di un lavoro autonomo.
E’ chiaro che parliamo di una tendenza che sembra destinata a prevalere ma che a sua
volta si scontra con le forti contraddizioni presenti nella gestione dell’impresa; la quale
rimane, in casi molto numerosi, ancorata ad un’organizzazione del lavoro di tipo tayloristico, incapace di socializzare un processo di conoscenza e di apprendimento. Il
fordismo è morto. Il taylorismo no.
Ma nelle imprese tecnologicamente avanzate e con un’organizzazione adeguata all’uso
flessibile delle nuove tecnologie, il lavoro che cambia, il lavoro concreto con i suoi spazi di
autonomia e di creatività e con la sua incessante capacità di apprendere, diventa il metro
di misura della competitività dell’impresa. In quei casi la flessibilità del lavoro si intreccia
con un processo di socializzazione delle conoscenze e con un continuo arricchimento
delle competenze dei singoli.
3. E’ bene però distinguere la flessibilità del lavoro come ideologia e la flessibilà del lavoro
come realtà.
L’introduzione delle nuove tecnologie dell’informatica e delle comunicazioni con i
mutamenti dei rapporti fra domanda e offerta che sono derivate dal loro uso sempre più
flessibile e adattabile, la rapidità e la frequenza dei processi di innovazione, con la
conseguente obsolescenza delle conoscenze e delle competenze, impone senza alcun
dubbio, come imperativo legato all’efficienza dell’impresa un uso flessibile delle forze
lavoro e una grande adattabilità del lavoro agli incessanti processi di ristrutturazione, che
tendono a diventare non più una patologia ma una fisiologia dell’impresa moderna.
Questa adattabilità può realizzarsi in due modi: o con un arricchimento e una
riqualificazione costante del lavoro e con una mobilità sostenuta da un forte patrimonio
professionale, oppure con un ricambio sempre più frequente della mano d’opera occupata
o di quella parte che non ha avuto alcuna opportunità di aggiornamento e di qualificazione.
E per la maggior parte dei casi, almeno in Italia, di questo tipo di flessibilità si tratta.
Intendiamoci bene, con questo la flessibilità del lavoro non cessa di essere un imperativo
per l’impresa, anche se non esiste come patrimonio individuale della persona che lavora.
Ma essa si accompagna ad un enorme spreco di risorse umane e anche di risorse
professionali accumulate nel tempo ma che non hanno avuto la possibilità di essere
aggiornate, ed a forme di occupazione precaria e cui corrisponde una regressione delle
competenze; alla creazione di un vero e proprio secondo mercato del lavoro, quello dei
"poor works".
Nessun problema quando i poor works coincidono con la prima fase della vita lavorativa e
si intrecciano, come accade per molti studenti con il proseguimento degli studi e la
formazione, quindi, di nuove competenze. Il problema esiste per l’intera società, e per la
coesione della società intorno a valori condivisi, quando i "poor works" coincidono con la
creazione di un ghetto dove sono relegati lavoratori precari, lavoratori stagionali,
disoccupati strutturali, ai quali viene di fatto preclusa una mobilità presso attività
subordinate o autonome, con maggiori contenuti professionali e quindi con maggiori spazi
di autonomia decisionale.
E forse per questa ragione, e per rimuovere il problema, che una nutrita letteratura ha fatto
la sua comparsa negli ultimi anni associando, con ostinazione, la flessibilità e in modo
particolare la flessibilità "in uscita" con l’occupazione, anzi tendenzialmente con la piena
occupazione, ignorando anni di riscontri statici che dimostrano come la flessibilità del
lavoro è neutra rispetto al volume complessivo dell’occupazione e che, semmai i suoi
effetti possono farsi sentire come carenze di mano d’opera disponibile per occupazioni
qualificate. A mio modesto avviso questa ideologia della flessibilità ha soltanto contribuito a
consolidare le resistenze nei confronti del lavoro che cambia ed a nascondere l’enorme
questione che sorge nell’era delle trasformazioni tecnologiche dell’informazione: quello
della socializzazione della conoscenza, per impedire, con il "digital divide", la creazione di
un fossato sempre più profondo fra chi è incluso in un processo di apprendimento nel
corso dell’intero arco della vita e chi è brutalmente escluso dal governo di questo
processo.
E’ facile vedere che questo diventa un problema maggiore per il futuro della democrazia.
Si tratta in realtà di riflettere di fronte a questa sfida e alla minaccia di una profonda
frattura sociale fra chi è padrone di un sapere e chi ne è escluso, ai contenuti di un nuovo
contratto sociale, di un nuovo statuto di base per tutte le forme di lavoro, subordinato,
eterodiretto o autonomo, partendo dalla consapevolezza che, per un numero crescente di
lavoratori, il vecchio contratto sociale è superato.
4. Il vecchio contratto sociale, così come è sancito dal codice civile, prevedeva in sostanza
uno scambio equo fra un salario e una quantità (come tempo) di lavoro (astratto, e senza
qualità) sulla base di due presupposti fondamentali –che però non fanno formalmente
parte del patto- :
La disponibilità passiva della persona che lavora, non contemplata nel patto formale
perché supporrebbe uno scambio di denaro con una "parte" della persona stessa;
La durata indeterminata del rapporto di lavoro, salvo eventi occasionali o gravi colpe del
lavoratore e il premio alla fedeltà e all’anzianità del lavoro per scoraggiare la mobilità fra
un impiego e l’altro.
Che cosa emerge dal rapporto sociale che viene in qualche modo plasmato dalle
trasformazioni tecnologiche e organizzative dell’impresa?
Primo che il tempo è sempre meno la misura del salario. La qualità della prestazione di
lavoro e l’intervento del lavoratore sono fisiologicamente diversi in un’ora di lavoro rispetto
ad un’altra. E’ la fine del lavoro astratto.
Secondo che l’importanza crescente della qualità e dell’autonomia del lavoro (capacità di
selezionare le informazioni e quindi di decidere) comporta anche per i lavoratori esecutivi
una responsabilità del risultato, che incombe sulla persona del lavoratore, e non più solo
sulla sua disponibilità ad erogare 8 ore al giorno di lavoro, lasciando all’imprenditore l’uso
effettivo di quelle 8 ore e l’opportunità di premiare questa fedeltà.
Terzo, che viene meno, come corrispettivo di un salario e di una disponibilità passiva della
persona, la prospettiva di un’occupazione stabile e in ogni caso di un rapporto di lavoro
stabile. La flessibilità del lavoro fa tendenzialmente scomparire questa certezza.
5. Non è ozioso quindi riflettere ad un nuovo tipo di contratto di lavoro che possa
coinvolgere nei suoi principi fondamentali tutte le forme di lavoro subordinato o eterodiretto
e tutta la giungla di contratti che prospera con la deregolamentazione selvaggia del
mercato del lavoro. Si può riflettere ad esempio, di fronte al venire meno della stabilità del posto di lavoro, e
alla fine per molti lavoratori, del contratto a tempo indeterminato (che era negli anni
passati, il contratto della grande maggioranza) ad uno scambio fra un salario correlato ad
una occupazione flessibile (sia all’interno di un’impresa che all’esterno, nel mercato del
lavoro), e l’acquisizione da parte della persona del lavoratore di una impiegabilità;
un’impiegabilità sostanziata da un investimento dell’impresa, del lavoratore e della
collettività in una formazione permanente ed in una politica di riqualificazione, capace di
garantire in luogo del posto fisso, prima di tutte un’occasione di mobilità professionale
all’interno dell’impresa e, in ogni caso, una nuova sicurezza che accompagni il lavoratore il
quale dopo un’esperienza lavorativa possa affrontare in condizioni migliori, di maggiore
forza contrattuale, il mercato del lavoro.
Si può riflettere ancora sul modo in cui riconoscere alla persona concreta, che diventa un
soggetto responsabile e quindi attivo e non passivo del rapporto di lavoro, un diritto allo
sguardo, cioè all’informazione, alla consultazione e al controllo sull’oggetto del lavoro (il
prodotto, l’organizzazione del lavoro, il tempo di lavoro, il tempo di formazione e il tempo
disponibile per la vita privata) di cui essa è chiamata a rispondere, nel risultato di
un’attività che non è più cieca ed irresponsabile.
Non costituirebbe forse questo tipo di partecipazione dei singoli o dei gruppi un modo di
estendere le forme orizzontali e multidisciplinari di organizzazione del lavoro, con la
partecipazione formata ed informata di un numero crescente di operatori? E non si
riproduce, forse, in questo modo, la necessità di intrecciare l’attività lavorativa con l’attività
formativa e con l’attività di ricerca e di costruire forme di organizzazione del lavoro capaci
di apprendere, di rispondere ai nuovi imperativi della conoscenza e di diventare, quindi,
organizzazioni che creano conoscenza?
Si deve riflettere infine sulla necessità di garantire a tutti i soggetti di un contratto di lavoro
e particolarmente a quelli che ricorrono alla miriade di contratti a tempo determinato od a
contratti di collaborazione coordinata e continuativa –ma sempre a tempo determinato- il
principio della certezza del contratto, di un contratto che non può essere revocato senza
l’accertarsi di gravi mancanze da parte del lavoratore.
Nelle prestazioni più qualificate si può immaginare addirittura che questo diritto alla
certezza del contratto coinvolga tutti e due i soggetti del rapporto di lavoro.
6. Un nuovo contratto sociale, inclusivo di un welfare effettivamente universale diventa
peraltro imperativo di fronte alle gravi disuguaglianze che contraddistinguono, prima di
tutto in termini di opportunità, l’accesso ai servizi sociali fondamentali, a cominciare dalla
scuola e dalla formazione e che esistono fra i diversi contratti ed i diversi statuti del lavoro.
Ma qui ci troviamo di fronte ad un’altra sfida che richiama in causa il rapporto fra lavoro e
conoscenza.
La popolazione invecchia rapidamente in Europa e particolarmente in Italia. Nel 2004 la
classe di età dei 55-65 anni sorpasserà, in quantità, la classe di età dei 15-25 anni. E
cominciano a porsi problemi rilevanti sia per garantire la salute e l’assistenza delle
persone più longeve che per garantire un reddito decoroso per i pensionati.
Fino ad ora la sola soluzione presa in considerazione da molti governi è stata quella di
garantire un minimo di pensione, al limite della sopravvivenza, all’universo dei cittadini; per consentire ai più fortunati, quelli che non conoscono interruzioni significative del rapporto
di lavoro, il ricorso ai fondi pensione privati.
Non sembra che questa, di una riduzione della sicurezza nell’assistenza sanitaria e nel
regime pensionistico, sia una soluzione sostenibile nel medio termine a meno di spaccare
permanentemente in due il mercato di lavoro e di scontare un aumento, alla lunga
insostenibile, dell’esclusione sociale e della povertà.
La sola strada, difficile ma percorribile, per scongiurare una simile prospettiva appare
invece quella dell’aumento della popolazione attiva, in grado di finanziare lo Stato Sociale.
Ma questa è ferma in Italia al 50% della popolazione totale, contro il 72-75% dei paesi
nordici.
Un tale sforzo comporta certamente l’aumento dell’occupazione femminile e l’aumento di
un’immigrazione sempre più qualificata.
Ma sembra ineludibile la promozione di un invecchiamento attivo della popolazione, con
l’aumento volontario ma incentivato, dell’occupazione dei lavoratori anziani e quindi
dell’età pensionabile.
Oggi, invece, da questo punto di vista, la situazione è drammatica per i lavoratori anziani,
oltre i quarantacinque anni, gli "over forty five", che sono i primi ad essere licenziati e la cui
perdita di lavoro coincide, nella grande maggioranza dei casi, con la disoccupazione
strutturale, per un periodo che può andare dai 45 anni ai 60 anni della pensione di
vecchiaia. E questa è la prospettiva, con la progressiva scomparsa della pensione di
anzianità. Fino ad oggi i lavoratori ultra 55enni sono infatti occupati in Italia solo nella
misura del 35%! contro il 70% dei paesi scandinavi.
L’aumento della popolazione attiva anche per i lavoratori anziani appare quindi, come la
sola alternativa alla riduzione della tutela pensionistica universale. Ma fare fronte a questa
sfida e garantire, al tempo stesso, un rapporto effettivo fra una popolazione più longeva e
la vita sociale della comunità, un processo di inclusione nella vita civile e politica del
paese, comporta uno sforzo straordinario nel campo della formazione e della
riqualificazione del lavoro, uno sforzo che implica, in molti casi, come per gli immigrati e gli
anziani, la ricostruzione di un minimo di cultura di base.
Si tratta quindi, di immaginare una politica della formazione lungo tutto l’arco della vita,
oltre all’obbligo formativo fino ai diciotto anni, capace di modulare le tecniche di
formazione e di apprendistato in ragione dell’età, dell’origine, della cultura di base e del
sapere fare dei lavoratori e delle lavoratrici. Si tratta infatti di personalizzare sempre più le
pratiche di formazione, per scongiurare numerosi fallimenti.
7. La realizzazione dell’obiettivo fissato dall’Unione Europea con il vertice di Lisbona nel
2001, di portare entro il 2010 al 70% il livello medio di occupazione della popolazione
totale dell’Unione, di incentivare l’invecchiamento attivo e la riqualificazione dei lavoratori
anziani, di favorire, per tutti, una maggiore mobilità professionale verso l’alto, durante la
vita lavorativa, presuppone quindi un radicale cambiamento nella struttura della spesa
pubblica e nell’organizzazione del sistema formativo: in tutti i Paesi dell’Unione; ma
particolarmente in un Paese come l’Italia, che salvo pochi punti come quelli che abbiamo
celebrato oggi resta alla coda, negli investimenti -fra loro inseparabili- per la ricerca e per la formazione, non solo degli Stati Uniti e della maggior parte dei paesi europei ma persino
di alcuni paesi del Sud Est asiatico.
Prima di tutto, un radicale cambiamento nelle priorità della spesa pubblica e nelle forme di
incentivazione degli investimenti privati destinati alla formazione e alla ricerca. Questo
comporta un rilevante aumento delle spese destinate alla formazione e alla ricerca nei
centri di educazione scolastica ed universitaria e al tempo stesso una consistente
incentivazione all’investimento nella formazione da parte delle imprese, accompagnata da
controlli e sanzioni, nei casi di utilizzi impropri dei finanziamenti pubblici.
Si tratta infatti di sormontare la riluttanza della maggior parte delle imprese –e soprattutto
di quelle meno innovative- ad investire nel fattore umano, quando una parte consistente
della mano d’opera ha un’occupazione precaria e quindi provvisoria.
E, a questo scopo, sembra inevitabile prevedere per i programmi di formazione, di
aggiornamento o di riqualificazione, oltre ad un concorso delle istituzioni pubbliche
nazionali e locali, una partecipazione dei lavoratori al loro finanziamento e quindi un
ulteriore legittimazione di un loro diritto di proposta e di controllo sui programmi formativi.
Questo significa che la contrattazione del salario e dell’orario di lavoro dovrà prendere in
conto –come una specie di "salario in natura" o di "assicurazione per la mobilità
professionale"- il concorso dei lavoratori al finanziamento e all’esercizio delle attività
formative interessanti le imprese, a livello aziendale; o nel territorio, per le piccole imprese.
L’Unione europea potrà concorrere anche essa, a queste condizioni, al finanziamento
delle attività di formazione e ricerca, favorendo tutte le sinergie che possono realizzarsi
con altre istituzioni scolastiche o con altre imprese europee.
Per quanto riguarda, invece, l’organizzazione del sistema formativo sembra divenire di
fondamentale importanza la definizione e la sperimentazione di rapporti trasparenti fra gli
istituti scolastici e universitari ed il sistema delle imprese nella salvaguardia delle rispettive
autonomie. E non mi riferisco soltanto alla formazione professionale. Si tratta, in buona
sostanza, di sperimentare sistematicamente la pratica degli "stages" sia per gli studenti
che per i docenti. L’insegnamento infatti non è al riparo dell’invecchiamento e
dell’obsolescenza.
Si tratta di aprire la scuola secondaria e gli atenei universitari alla partecipazione periodica
di docenti provenienti dal mondo dell’impresa.
Si tratta infine di dotare le Università dei mezzi e degli organici adeguati per potere
svolgere sul territorio un’azione di promozione di esperimenti imprenditoriali, nei quali la
ricerca e la formazione ad alte qualificazioni possano svolgere un ruolo decisivo di
impulso. E Cà Foscari sta dando esempio di un’autonomia capace di sprigionare
esperienze importanti che aprono una nuova dimensione del lavoro di ricerca e
formazione dell’Università.
8. E’ facile però comprendere a questo punto, come l’obiettivo di Lisbona, la costruzione di
una società della conoscenza e di nuovi rapporti sistemici fra lavoro e conoscenza non
possa essere ridotto ad una questione di soldi o ad una questione organizzativa. Si tratta
in realtà di avviare una sorta di rivoluzione culturale capace anche si superare con
l’iniziativa politica e sociale le molte inerzie che si frappongono al suo conseguimento.
Inerzia delle forze politiche che stentano ad individuare in uno Stato sociale incentrato
sulla formazione, la priorità delle priorità di una politica economica e della piena occupazione e che preferiscono magari rincorrere la moda di una riduzione indiscriminata
della pressione fiscale, accompagnata, inevitabilmente, da una riduzione delle risorse per
scuola, formazione, ricerca.
Inerzia di molte realtà imprenditoriali che privilegiano la flessibilità in uscita della loro
manodopera, rispetto ad un investimento a medio termine in formazione che assicuri un
maggiore uso della flessibilità del lavoro all’interno dell’impresa e, in ogni caso, una
maggiore occasione di impiegabilità e di rioccupazione per i lavoratori.
Inerzia anche nella psicologia di molti lavoratori che vedono spesso con avversione
l’impegno in un attività formativa, soprattutto al di là di una certa soglia di età.
Inerzia in alcuni settori della scuola di fronte alla necessità di sperimentare nuove forme di
autonomia rimettendo in questione vecchie certezze.
E inerzia anche in tanti comportamenti sindacali che tardano a mettere la conquista di un
sistema di formazione per tutto l’arco della vita, al centro della contrattazione collettiva.
Ci sarebbe quindi da diventare scettici sulle possibilità di realizzazione delle strategie di
Lisbona e sulla possibilità di superare, sia pure gradualmente, quel ritardo di dieci anni che
si è accumulato, negli anni ’80, in Europa rispetto alle competitività dell’economia degli
Stati Uniti.
Ma ci possono essere di conforto due convinzioni: La prima consiste sul fallimento ormai
incontrovertibile di quelle politiche dell’occupazione che non passino per la promozione di
un’attività formativa del fare e del sapere fare, capace di completare e di valorizzare la
formazione scolastica. E la controprova è rappresentata dal sistema di apprendistato in
Germania che ha ridotto ai minimi termini la disoccupazione giovanile di lunga durata.
Siamo ormai costretti a compiere certe scelte.
La seconda deriva dall’esperienza che ho vissuto negli anni 70, quando si trattò di
sperimentare nel mondo del lavoro salariato e nel mondo della scuola l’accordo sindacale
sulle 150 ore di formazione a carico delle imprese per 300 ore di formazione effettiva. Con
tutti i suoi limiti, i suoi errori e le sue sbavature, quell’esperienza liberò tali energie nel
mondo della scuola e in quello di lavoratori meno qualificati e consentì di mettere persino
alla prova gli elementi di una nuova pedagogia per la formazione degli adulti, da lasciare
tracce profonde anche i molti quadri sindacali. Questa esperienza è andata oggi in larga
misura dispersa. Ma è stata possibile!
E oggi, è possibile liberare, come l’avventura dell’Unione Europea, energie, iniziative,
azioni politiche e sociali, simili a quegli degli anni ’70, consapevoli e forti di essere per la
nostra economia e la nostra società, senza alternativa credibile (e senza molto tempo
davanti a noi, se non vogliamo ripetere, all’inizio di questo secolo, l’esperienza disastrosa,
per l’Europa e per l’Italia, degli anni ’80, che aprì un solco rispetto alla competitività degli
Stati Uniti)?
Io ne rimango, malgrado tutto, convinto.
Molte grazie a Voi per avermi concesso questa occasione di dirlo.
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