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Massimo D'Antona, costruttore di ponti, non di muri - di Ilaria Romeo

Il 20 maggio 1999 veniva ucciso a Roma Massimo D’Antona, giurista e docente universitario di Diritto del lavoro, consulente del governo D’Alema.  In 14 pagine stampate fronte retro, ecco la rivendicazione delle Nuove Brigate Rosse: “La nostra organizzazione - si legge nel comunicato - ha individuato il ruolo politico-operativo svolto da Massimo D’Antona, ne ha identificato la centralità e, in riferimento al legame tra nodi centrali dello scontro e rapporti di forza e politici generali tra le classi, ha rilanciato l’offensiva combattente”.
Sono in tutto 28 pagine fitte di righe. Il documento porta al centro una stella a cinque punte e una sigla: Brigate Rosse. È realizzato con il computer, non è dattiloscritto come i volantini brigatisti degli anni settanta. Massimo D’Antona viene condannato a morte dai brigatisti perché ritenuto la mente pensante di quel “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”, che aveva ideato per l’esecutivo guidato da Massimo D’Alema e per il ministro del Lavoro Antonio Bassolino.
Scriveva a proposito di lavoro D’Antona: “Ci sono dei diritti fondamentali del mercato del lavoro che debbono riguardare il lavoratore, non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro come programma di vita e si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità”.
“Massimo D’Antona è uno di noi, un amico, un punto di riferimento - affermava lo scorso anno il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - Dava risposte indicando un orizzonte. Un innovatore profondo, ma mai tentato dal determinismo conclamato da chi cancella i diritti e la dignità del mondo del lavoro. Un giurista sensibile, colto e raffinato, con il tono pacato. Si potrebbe dire che la sua figura somiglia a quella del progettista costruttore di ponti, non di muri”.
Il 20 maggio - lo ricordiamo -  non è solo la data dell’omicidio D’Antona, è anche quella di una grande conquista sociale e civile, lo Statuto dei lavoratori, che proprio il 20 maggio 1970 diventava legge. 
D’Antona si formerà in quella stagione ad una duplice scuola, quella universitaria del suo maestro Renato Scognamiglio, prestigiosa per stile e rigore, e quella della «Rivista giuridica del lavoro», allora impegnata in una rilettura costituzionale della normativa giuslavorista.
Uno dei padri dello Statuto, Gino Giugni, così ricordava il professore da poco scomparso sulle pagine della Rivista «Lpa»: “Spetta a me l’ingrato e doloroso compito di ricordare Massimo D’Antona, e lo ricordo con profonda commozione perché mi trovo ad avere incrociato la sua vita in almeno tre punti di snodo: Massimo come collega, Massimo col quale ha condiviso idee politiche così come una profonda affinità culturale, e infine Massimo come amico. Tre condizioni che mi inducono a parlarne con grande commozione, tre condizioni che si sono intrecciate fortemente a definire una profonda ricchezza umana; ma su di esse prevale in modo netto la passione dello studioso e del professore universitario. In tutte le qualità che ho prima elencato, in tutte le aree di esperienza a cui ha fatto riferimento, una netta preferenza venne infatti segnata dalla qualità di studioso. Fui membro della commissione di concorso per la cattedra e questo fu l’avvio dell’esperienza di un grande studioso e di un grande professore.
Al momento della scomparsa stampa e mass media ci hanno illustrato, giustamente, i grandi meriti di Massimo, ma non hanno sufficientemente posto in rilievo quello che fu di gran lunga prevalente, e cioè lo studioso, professore all’Università di Catania, di Napoli e successivamente a quella di Roma. Massimo D’Antona fu partecipe intenso della vita Accademica. Ma si segnalò soprattutto per l’opera scientifica: dalla monografia sulla reintegrazione del posto di lavoro, tema difficile che egli affrontò con semplicità e grande equilibrio nella trattazione, e nel prosieguo di tutta la sua attività scientifica; mi è poi caro menzionare uno splendido articolo che dimostrò una profonda conoscenza del problema del metodo.
Massimo fu, senza enfasi, un giurista che operava già nella conoscenza del nuovo secolo - prosegue Giugni - Gli studi sul mercato del lavoro e sul diritto comunitario, sui vari momenti del rapporto di lavoro, sui rapporti atipici segnarono una delle fasi più importanti della sua attività scientifica. Mi è particolarmente gradito ricordare che alcuni di questi studi furono pubblicati nella rivista scientifica di cui sono direttore.
Ma a queste attività di ricerca si accompagnò un intensa partecipazione all’attività legislativa. Nel collegamento fra interpretazione della legge e dell’attività contrattuale si realizza una figura compiuta di giurista che non solo si appaga nel momento interpretativo, ma intende procedere oltre, ponendo in esse una più diretta partecipazione al processo legislativo […] Cercammo tutti e due, e ne parlo anche a nome dei nostri allievi, gli estremi d’un pensiero comune, orientato ad un diritto del lavoro che voleva creare il diritto e non solo commentarlo”.
“Io ho conosciuto Massimo D’Antona nel sindacato, in Cgil - affermerà sullo stesso numero della rivista Andrea Ranieri, segretario regionale della Cgil Liguria fino al 1996 e successivamente segretario generale della Federazione Formazione e ricerca - Lui ha lavorato molto con Cgil, Cisl, Uil, con le forze sociali più in generale, per affermare le ragioni del patto, della concertazione, della ragionevolezza. Lo ricordo per il suo contributo al sindacato: era un uomo di eccezionale dottrina e di eccezionale capacità di ascolto: fermo nelle sue idee, anche nelle più innovative; molte di esse hanno scosso un po’ di certezze, di tranquillità nel sindacato, ma aveva anche una grande capacità di ascolto per i problemi che queste idee evocavano. Ciò di cui lui parlava era la vita delle persone, di milioni di persone e non è un caso che nei suoi saggi anche nei più tecnici si senta circolare la vita, la vita degli uomini e delle donne che stanno dietro alla disciplina del licenziamento e del reintegro, degli uomini e delle donne di cui si parla quando si affrontano i temi del diritto di sciopero e della rappresentanza. Ha dato dei contributi eccezionali al sindacato. Ne ricordo qualcuno tra i più significativi: la sua attenzione alle problematiche del diritto del lavoro europeo. Lui indicò con molto anticipo al sindacato la necessità di confrontarsi con una dimensione europea del lavoro, di uscire dal provincialismo, di uscire dalla specificità di un caso italiano che poteva sembrare appagante ma che ormai entrava in contraddizione con la nuova Europa, e con l’idea fermissima di un’Europa che non poteva restare l’Europa delle monete, ma doveva diventare uno spazio sociale di cui il nuovo diritto del lavoro poteva essere una componente determinante”.
Ricordava in occasione del 15° anniversario della scomparsa Guglielmo Epifani, allora presidente della X Commissione della Camera: “Quella mattina, noi della Cgil venimmo presi da un duplice sentimento. Il primo fu di dolore, perché Massimo era stato un nostro collaboratore per tanti anni, il secondo di incredulità, perché non riuscivamo a capire chi potesse esser stato. Poi capimmo, e per noi fu chiaro che dovevamo reagire e reagimmo. Ancora oggi, 15 anni dopo, non possiamo abbassare la guardia. Perché la violenza è ancora nemica del dialogo, della razionalità, del senso dell’interesse generale. Per questo, anche oggi, la sua figura risulta un esempio fulgido di buon servizio al paese e di una persona onesta che cerca il bene comune”.
“Il vile assassinio del professor Massimo D’Antona ha privato la nostra comunità nazionale di un serio riformatore, di un uomo del dialogo, di un’intelligenza al servizio del progresso civile, sempre attenta alle ragioni del lavoro - diceva due anni orsono il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - La sua opera per un mondo del lavoro moderno e parte dello sforzo per la crescita del Paese, unita all’impegno per combattere le diseguaglianze e rimuovere gli ostacoli che frenano e limitano l’universalità dei diritti che la Costituzione sancisce, costituisce patrimonio comune”.
Un patrimonio comune da salvaguardare e conservare, oggi più che mai.

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