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Un compleanno Manifesto - di Ilaria Romeo

L’XI Congresso del Pci (febbraio 1966) finisce amaramente per la sinistra ingraiana: Luigi Pintor e Rossana Rossanda restano membri del Cc ma vengono ambedue sollevati dalle loro precedenti funzioni, Luciana Castellina e Filippo Maone vengono allontanati da Botteghe Oscure, Lucio Magri rimosso dalla Commissione di massa.

Il  23 giugno 1969 viene dato alle stampe dalla Dedalo editore in 75.000 copie il primo numero della rivista Il Manifesto, all’inizio rivista politica mensile diretta da Lucio Magri e da Rossana Rossanda.

Alla sua redazione partecipano Luigi Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Lidia Menapace e Ninetta Zandegiacomi. La veste grafica è curata da Giuseppe Trevisani.

L’editoriale  del  primo numero - non firmato - dal titolo “Per un lavoro collettivo” rappresenta  la  linea programmatica della rivista e del gruppo stesso (con la trasformazione in quotidiano avvenuta il 28 aprile 1971, Il Manifesto si costituisce anche come struttura politica alle elezioni del 1972, presentando una propria lista alla Camera dei deputati e invitando a votare il Pci al Senato).

“Questa pubblicazione - si legge nel testo - nasce da un convincimento, che pensiamo non solo nostro: il convincimento che la lotta del movimento operaio, la storia stessa del movi­mento, sia entrata in una fase nuova; che molti schemi consacrati di interpretazione della realtà e molti modi di comportamento siano saltati senza rimedio; che la crisi sociale e politica che ci circonda non possa essere vissuta e fronteggiata con la normale amministrazione. In Italia, come nel mondo, le vicende sconvolgenti di questi anni, e quelle che è ragionevole attendersi, dimo­strano che il sistema di potere del capitalismo è com­battuto in profondità da un movimento impetuoso che aspira a una società radicalmente diversa. E tutta­via dimostrano che questo movimento fatica a, darsi un ordine e una prospettiva e soffre di divisioni e insufficienze, teoriche e politiche, che crescono col crescere della tensione rivoluzionaria.
È spiegabile che così sia. I problemi che abbiamo di fronte non sono infatti particolari e minori, ma gene­rali e essenziali: si tratta di cogliere la natura della crisi che scuote il capitalismo maturo; le ragioni della frat­tura del movimento operaio e comunista; le vie di una transizione al socialismo in una società «avanzata» com'è la nostra; le possibili condizioni di una saldatura tra le spinte maturate in questi anni e una tradizione di mezzo secolo. Di così grandi problemi, nessuno può pretendere di possedere tutti i termini, e tanto meno di influenzare la soluzione con formule logore o con improvvisazioni avventate.
Né il ripiegamento dogmatico né la fiducia nella sponta­neità, né l'indulgenza per le proprie abitudini né la presunzione di gruppo, possono aiutarci. La via che le cose stesse suggeriscono è piuttosto quella di una dialettica aperta all'interno di tutto il movimento, di un massimo di circolazione delle idee, per modeste che siano, di un più vero lavoro collettivo, senz'altra limi­tazione che quella imposta dalla responsabilità e dalla coscienza di ciascuno. Una via da percorrere ritrovando tutto il senso della milizia politica, al di fuori dei condizionamenti tattici e degli equilibri di potere, sen­za cedere allo scoraggiamento per la disparità tra i compiti che si affrontano e le forze di cui si dispone.
Su un terreno generale, ricco di implicazioni teoriche, avanza oggi il quesito se sia maturo il superamento del capitalismo come sistema mondiale, del suo modo di produrre e di consumare, di pensare e di far pensare, di organizzare là vita collettiva e i rapporti tra gli uomini: cosi come Lenin lo pensava maturo su scala europea, cinquantanni fa. La irrazionalità economica, l'impotenza politica, lo smarrimento ideale del capita­lismo sviluppato, la sua disumanità, ma anche la tra­gedia del sottosviluppo, la crisi produttiva e politica dei paesi socialisti europei, la rivoluzione culturale cine­se, ripropongono in forme diverse un'unica questione: la necessità di un sistema sociale non più legato allo sfruttamento in qualsiasi forma, alla divisione del lavo­ro, alla atomizzazione della vita collettiva e alla soli­tudine individuale; la necessità e l'attualità di quella che Marx chiamava società comunista.
Per i condizionamenti storici che si conoscono, il movi­mento operaio e le ideologie che è andato elaborando, la II Internazionale e il riformismo, ma anche la III Internazionale e lo stalinismo, non hanno affron­tato, o hanno poi abbandonato o oscurato questa tema­tica. Si è venuto perdendo il senso della rivoluzione come rottura e rovesciamento dell'ordine di cose esi­stente.
È astratto e intellettualistico riproporsi questa prospettiva in tutta la sua ampiezza? O non è vero invece che quanto succede nel mondo, e le stesse con­quiste del passato, inducono a ritenere che siano pre­senti le condizioni perché il discorso teorico di Marx si trasferisca sul terreno della concretezza storica e dell'attualità politica, con tutta la forza del suo radicalismo originario ?
Senza risalire a questi nodi e ritrovare questo respiro, non solo ai filosofi ma a ogni semplice militante riuscirà sempre più difficile leggere e comprendere in modo unitario la storia mondiale, vivere l'azione rivoluzio­naria di ogni giorno, spezzare le incrostazioni opportu­nistiche e burocratiche che si perpetuano separandosi dalla vita e generando nuovi poteri oppressivi, o sfug­gire alle lusinghe del revisionismo socialdemocratico, o ai nuovi miti romantici e ribellistici, o ai meccanici ritorni al passato.
Su un terreno più direttamente politico, avanza con forza il problema di una verifica e di un rinnova­mene coraggioso degli schemi strategici, della pra­tica politica, dei moduli organizzativi del movimento operaio. Un rinnovamento stimolato dalle grandi esperienze rivoluzionarie che si compiono in altre parti del mondo, ma dettato dal carattere che lo scontro sociale assume oggi nell'occidente capitalistico. La sinistra rivoluzionaria occidentale è ancora vittima di una debolezza storica di fronte al capitalismo svi­luppato. La sua critica al sistema non ne ha investito la natura ma le insufficienze produttive, le sue piat­taforme di lotta solo di rado hanno superato l'oriz­zonte rivendicativo o quello parlamentare, la sua in­terna struttura è rimasta centralizzata e gerarchica. Questi caratteri negativi hanno segnato sensibilmente il movimento di classe. Per superarli, non una sem­plice modifica di linea è necessaria ma una innova­zione profonda nell'orizzonte teorico, nel modo di es­sere e di operare delle organizzazioni che la classe ope­raia ha finora espresso.
Il nostro paese gode di un privilegio forse unico: d'es­sere teatro di esperienze, lotte, spinte originali non dissimili da quelle che corrono per tanta parte dell'oc­cidente, generando nuovi e autentici protagonisti dello scontro sociale; e d'essere sede in pari tem­po del più robusto movimento di massa del mondo capitalistico, di un Partito comunista non chiuso a uno sforzo di superamento dei propri limiti e condi­zionamenti storici. Un dialogo tra passato e futuro è così aperto nella realtà ancor prima che nelle inten­zioni. Una saldatura non superficiale tra quel che la storia e la lotta della classe operaia ha già prodotto, e quel che la lotta di classe sta producendo di nuovo, si presenta come chiave di volta e molla di un salto di qualità, e condizione della vittoria. Purché si abbia chiaro che a un rinnovamento di questa natura non si può approdare in modo indolore, con una crescita naturale; ma solo con una nostra «rivoluzione cul­turale», capace anche di mettere in discussione un pa­trimonio consolidato.
Una rivoluzione culturale non una battaglia di idee tra stati maggiori intellettuali. Il pericolo opportu­nista non nasce da uno smarrimento delle coscienze o da un tradimento degli «apparati», ma come feno­meno sociale, effetto della complessa realtà moderna che soffoca i veri protagonisti del processo rivolu­zionario e gli operai per primi. E come fenomeno so­ciale va dunque combattuto, con una estensione e un rilancio della lotta di classe a tutti i livelli, con un rifiuto operaio e di massa di tutte le ineguaglianze e le oppressioni direttamente patite nella vita pro­duttiva e associata.
Questi problemi, queste esigenze, questi interrogativi, esistono in un modo o nell'altro nei sentimenti e nella mente di chiunque viva, da poco o da gran tempo, nella lotta politica. Proporseli apertamente, contribuire bene o male ad affrontarli, vorrebbe essere il nostro scopo, col rischio e la preoccupazione di un'alta percen­tuale d'errore, ma anche senza farsi di questa preoccu­pazione un alibi. In ogni caso vuol essere, questo, un modi di riaffermare le ragioni di una milizia, dell'im­pegno che ci si assume quando si entra nell'organizza­zione politica di classe.
In condizioni nuove e con i mezzi disponibili: anche con una rivista, che nasce per portare avanti con qualche continuità un discorso politico già avviato, offrendosi come possibile strumento di confronto a chiunque av­verta le stesse esigenze, e augurandosi di coinvolgere un arco di esperienze più vasto di quanto il proprio impianto non lasci sperare.
Non ci pare esistano strade più sicure e più rapide. Si è lontani dalla chiarezza teorica e dalla capacità di mobilitazione necessarie per dare a tutta la sinistra una nuova dimensione politico-operariva. Ma favorire questo processo in modo aperto, con alcune scelte pregiudiziali, anche individuali, è già azione politica. In questo spirito, non certo con la presunzione di un «richiamo alle origini» e al grido di battaglia del 1848, abbiamo chiamato questa rivista «Il Manifesto»: per sottolineare il bisogno, che sentiamo presente nei senti­menti e nella ragione di tanti compagni e di tanta parte della società contemporanea, di un riferimento ideale, nella ricerca di quell'unità di ispirazione delle forze rivoluzionarie oggi per tanti aspetti compromessa”.

Enrico Berlinguer avrebbe probabilmente preferito evitare dei provvedimenti disciplinari che però il resto del partito gli impose fin dall’uscita del primo numero. 

Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda saranno radiati con  il voto del Comitato centrale del 27 novembre 1969. La stessa sorte subiranno gli altri membri della redazione nelle settimane successive.

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