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100 anni fa, a Trieste, l'incendio del Narodni dom - di Ilaria Romeo

Il 13 luglio del 1920, dopo un comizio, un gruppo di estremisti fascisti e nazionalisti attacca e da fuoco, a Trieste, a venti edifici tra i quali il Narodni dom, nel corso di quello che Renzo De Felice ha definito ‘il vero battesimo dello squadrismo organizzato’.

“L’anima grande del comandante Gulli - affermava il segretario cittadino del Partito Fascista, Francesco Giunta - barbaramente ucciso, vuole vendetta. Fratelli, che avete fatto voi del provocatore pagato? È stato poco, dovevate uccidere! Bisogna stabilire la legge del taglione. Bisogna ricordare ed odiare (...). Gulli era l’uomo di Millo, il più grande ammiraglio che abbia avuto l’Italia. Gulli va vendicato (...) L’Italia ha portato qui il pane e la libertà. Ora si deve agire; abbiamo nelle nostre case i pugnali ben affilati e lucidi, che deponemmo pacificamente al finir della guerra, e quei pugnali riprenderemo - per la salvezza dell’Italia. I mestatori jugoslavi, i vigliacchi, tutti quelli che non sono con noi ci conosceranno”.

L’incendio, domato solamente il giorno successivo, ridurrà in cenere gli ambienti modernamente arredati, i libri, gli strumenti musicali, gli archivi, e con essi gran parte del patrimonio culturale degli sloveni di Trieste.

“Sulla via Commerciale non era scesa la sera, - scriverà Boris Pahor - l’incendio sopra i tetti sembrava venire dal sole che liquefacendosi sanguinava nel crepuscolo. Il tram per Opčine si era fermato, gli alberi nel giardino dei Ralli apparivano immobili nell’aria color porpora. Loro due correvano tenendosi per mano e nell’aria, sopra le loro teste, volavano le scintille che salivano da piazza Oberdan. […] Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: “Viva! Viva!” Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: “Eia, eia, eia!”. E gli altri allora di rimando: “Alalà!”. Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette”.

Secondo Gaetano Salvemini l’obiettivo immediato che i fascisti e i nazionalisti si erano proposti di realizzare attraverso l’incendio del Narodni dom sarebbe stato quello di sabotare le trattative italo-jugoslave per la questione di Fiume e dei confini tra i due paesi. 

Se da quel punto di vista si può dire che l’obiettivo fu mancato, le conseguenze del rogo saranno gravi e di lunghissima durata, divenendo il Narodni dom, simbolo dell’inizio delle persecuzioni fasciste contro gli slavi della Venezia Giulia.

L’incendio e la devastazione del “Balkan” e degli altri edifici segneranno l’inizio esplicito di una dura e violenta politica di oppressione etnica, che il fascismo e nazionalismo triestini e giuliani perseguiranno per tutto il ventennio nei confronti della minoranza slava.

Scriveva nel 1929 il giornalista Livio Ragusin-Righi nel saggio Politica di confine: “I nuclei di sloveni della zona di confine non hanno mai avuto una propria unità nazionale, né una propria civiltà. La loro storia è quella data dalla politica dell’Austria, in cui hanno servito da strumento… I gruppi allogeni della Venezia Giulia, neanche nella forma esteriore presentano le caratteristiche che sono proprie ad una minoranza nazionale… Privi di una propria convinzione e di qualsiasi coscienza, essi sono stati sempre guidati o con la forza o con le intimidazioni, oppure con le lusinghe e le illusioni… L’opera di colonizzazione ha tre aspetti principali: prima di tutto l’epurazione deve ridare alla popolazione allogena il suo aspetto genuino… In secondo luogo viene la colonizzazione che si può chiamare Stato, costituita dalla opportuna dislocazione di scelti funzionari italiani… Infine viene la saturazione completa”.

Prima ancora della emanazione in Italia delle Leggi fascistissime, gli sloveni e i croati rimasti nel loro territori vedranno chiudere, uno dopo l’altro, con disposizioni amministrative e atti di violenza, i loro centri culturali, i giornali, le società sportive e ricreative, le Casse rurali, le cooperative e ogni altra organizzazione.

Il RDL n. 1796 del 15 ottobre 1925 proibirà tassativamente l’uso di lingue diverse dall’italiano in tutte le sedi giudiziarie. Tutti gli atti redatti in lingua diversa da quella italiana sono da considerarsi come non presentati. Se la trasgressione viene commessa da un giudice, ufficiale giudiziario o da altro impiegato giudiziario, esso viene sospeso dal servizio. In caso di recidiva viene esonerato.

Analoghi provvedimenti saranno presi per tutti gli uffici pubblici ed anche nei negozi e nei locali pubblici sarà  proibito l’uso delle lingue locali.

Il Regio Decreto n. 800 del 29 marzo 1923 aveva già imposto l’italianizzazione della toponomastica, arrivando con il RD n. 17 del 10 gennaio 1926 all’italianizzazione forzata dei cognomi (il Regio decreto 7 aprile 1927, n. 494 estenderà a tutti i territori delle nuove Provincie le disposizioni contenute nel decreto-legge 10 gennaio 1926, n. 17, circa la restituzione in forma italiana dei cognomi delle famiglie della Venezia Tridentina).

Anche le leggi sulla scuola (la riforma Gentile sancirà formalmente l’obbligo dell’uso dell’italiano come unica lingua di istruzione nelle scuole del Regno, con la possibilità in aree mistilingui di studio della lingua locale in ore aggiuntive, previa richiesta delle famiglie all’inizio dell’anno scolastico. Con il R.D.L. 22 novembre 1925, verrà definitivamente abolito l’insegnamento delle lingue minoritarie, togliendo anche la possibilità delle ore aggiuntive nelle scuole elementari) e la religione asseconderanno la volontà del regime, costringendo alle dimissioni maestri e prelati dissidenti.

Proprio da Trieste, nella stessa piazza Unità d’Italia del comizio di Francesco Giunta del 1920, Benito Mussolini annuncerà il 18 settembre 1938, l’imminente promulgazione delle norme razziali sul territorio italiano.

Scriveva in proposito in occasione del 75° anniversario dell’annuncio Anna Foa su «Avvenire»: “La scelta di Trieste richiede qualche parola di commento. Nel suo discorso, Mussolini legava strettamente l’adozione di una politica razziale allo sviluppo di una politica imperiale da parte del fascismo. Il viaggio di Mussolini a Trieste era solo la prima tappa di un percorso intrapreso con grande clamore propagandistico dal Duce nelle zone della Prima guerra mondiale, viste naturalmente in un’ottica fortemente nazionalista. Forte era del resto l’adesione al nazionalismo fascista di Trieste, un’infausta trasformazione dell’antico spirito irredentista della città prima che divenisse italiana. Irredentisti erano stati in particolare gli ebrei di Trieste, un irredentismo che aveva facilitato in molti di loro l’adesione al fascismo, come del resto era avvenuto nel resto d’Italia, quando gli ebrei avevano visto nel fascismo l’esito naturale del nazionalismo. Ora la politica razziale di Mussolini li tagliava fuori da ogni appartenenza nazionale, legando strettamente il nazionalismo fascista al razzismo antisemita. In questo senso, la scelta di Trieste non era casuale, dotata com’era di una forte carica simbolica. Inoltre il Duce parlava in una città, Trieste, in cui la presenza ebraica era forte, radicata e ricca di cultura. Una città di confine, che era stata un ponte verso la Mitteleuropa. Ma era anche, più concretamente, il porto da cui partivano, fin dai primi anni del secolo, le navi cariche di ebrei dell’Est in fuga dai pogrom e dalle persecuzioni verso la terra d’Israele. La città che era per questo chiamata la Porta di Sion. E anche questo era ben presente nella mente di Mussolini quando il 18 settembre 1938 lanciò proprio da Trieste le leggi della vergogna”.

A cento anni dall’incendio del Narodni dom, a 82 anni dalla promulgazione delle leggi razziali, il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e il presidente sloveno Borut Pahor si sono incontrati oggi a Trieste.

Il primo atto dei due presidenti è stata la deposizione di una corona di fiori - con i colori delle bandiere dei due Stati - sulla Foiba di Basovizza. Un’identica cerimonia ha ricordato i quattro giovani slavi fucilati nel 1930 dal regime fascista.

Il momento principale dell’incontro, la cessione alla minoranza slovena del Narodni dom, l’ex hotel Balkan incendiato il 13 luglio del 1920.

Commenti

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