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Vajont, una tragedia da non dimenticare - di Ilaria Romeo

Vajont è il nome di un torrente che scorre nella valle di Erto e Casso per confluire nel Piave in provincia di Belluno.


La sera del 9 ottobre 1963 una sua ondata seminerà morte e desolazione. 

La stima più attendibile è, a tutt’oggi, di 1910 vittime.

1910 vittime causate da tre, fondamentali ed evitabili (il processo celebrato nelle sue tre fasi dal 25 novembre 1968 al 25 marzo 1971 si concluderà con il riconoscimento di responsabilità penale per la previdibilità di inondazione e di frana e per gli omicidi colposi plurimi), errori umani: l’aver costruito la diga in una valle non idonea sotto il profilo geologico; l’aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza; il non aver dato l’allarme la sera del 9 ottobre per attivare l’evacuazione in massa delle popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.

“Quella sera maledetta - racconta Renzo, un sopravvissuto - io, otto anni, dormivo in camera con mia sorella di dieci anni al terzo piano della mia casa. Mia mamma, al piano di sotto, stava lavando i piatti perché mio papà aveva appena cenato dato che, lavorando nella ditta che aveva con il mio padrino (...) era appena arrivato da Piacenza con l’autotreno. Dopo aver caricato il cemento a Castellavazzo, doveva partire per Agordo. La mamma sentì un forte vento, i vetri che sbattevano, la luce sparì e la casa si aprì dallo spostamento d’aria, vide le stelle e poi arrivò l’acqua. Mentre veniva sballottata dalle onde, si fece il segno della croce dicendo - Questa è la fine del mondo!- La forza dell’acqua la portò a nord, al bivio con Castellavazzo. Con una macchina fu portata a Pieve di Cadore. Fu la prima arrivata, nessuno sapeva ancora niente di quello che era successo tanto che le chiesero se, per caso, non avesse subito percosse o fosse stata gettata in un fosso. Le diagnosticarono grave shock traumatico, ferite multiple, ematoma su tutto il viso con vaste ferite lacero contuse al cuoio capelluto Io non mi sono accorto di nulla, per fortuna! Quando mi sono svegliato, ero in po’ intontito, ho fatto per accendere la luce e sono scivolato. Non mi rendevo conto di quello che era successo essendo al buio. Sentivo l’acqua che mi arrivava alle caviglie e tante urla di aiuto, tanto che mi misi anch'io a gridare aiuto. Poco dopo sono arrivati i soccorritori che mi hanno trovato sui gradini del Municipio. Mi hanno portato in un appartamento lì a fianco, ero completamente nudo e tremavo come una foglia. Mi hanno coperto con una coperta e, con la prima vettura disponibile, mi hanno portato all’ospedale di Pieve di Cadore. Mi hanno riscontrato un grave shock traumatico, contusione cranica con ematoma escoriato alla regione temporale sinistra più ferite multiple. Mia sorella, purtroppo è deceduta e l’hanno trovata a Sedico-Bribano, a 30 chilometri di distanza. Mio papà fu trovato a Fortogna. Dopo 40 giorni di ospedale siamo andati, provvisoriamente, dagli zii, a Igne, una frazione. Rimasi molto scioccato quando vidi che al posto di Longarone c’era un deserto di rottami dove lavoravano ruspe, gru, camion, soldati e, soprattutto, c’erano molti cadaveri”.

Scriveva Tina Merlin su l’Unità all’indomani della tragedia: “Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa” (ancora 25 anni dopo, in un discorso di commemorazione a Erto, la giornalista ricorderà quei sensi di colpa per non essere riuscita a farsi ascoltare, per non essersi rivoltata con tanta forza da evitare la tragedia).

Spalleggiato da Giorgio Bocca, Indro Montanelli le darà della “sciacalla” scrivendo sulla Domenica del Corriere: “Quella di Longarone è una tragedia spaventosa [...] Se certe reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che le approverei, ma le comprenderei e giustificherei. Ma qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all’abominio e al disprezzo di tutti i galantuomini italiani”. 

Il giornalista farà ammenda due volte, nel 1997 e nel 1998, dalla sua Stanza sul Corriere, confessando due colpe gravi: di essere arrivato sul posto senza sapere niente della diga e di aver preso una posizione totalmente ideologica a favore dell’azienda responsabile, la Sade, soltanto perché contrario alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. 

“A 55 anni dal disastro del Vajont - affermava il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel 2018 - l’Italia non dimentica le vite spezzate, l’immane dolore dei parenti e dei sopravvissuti, la sconvolgente devastazione del territorio, i tormenti delle comunità colpite. Neppure può dimenticare che così tante morti e distruzioni potevano e dovevano essere evitate. In questo giorno di memoria il primo pensiero va alle vittime, ai loro corpi straziati, molti dei quali mai ritrovati”.

Molti furono i telegrammi di solidarietà e vicinanza inviati all’allora presidente della Repubblica Antonio Segni da tutto il mondo il 10 ottobre 1963: “Tutti gli americani si uniscono a me nell’esprimere la loro piena solidarietà con quanti hanno subito perdite a causa del tragico disastro occorso presso Belluno e la valle del Vajont. Le sarei graditissimo se ella volesse rendersi cortese interprete presso i parenti delle vittime, del mio profondo cordoglio personale”, scriveva John F. Kennedy, presidente degli Stati Uniti d’America; “Sono rimasta profondamente costernata alla notizia della disastrosa alluvione accorsa nella valle del Piave che ha causato tanti danni e perdite di vite umane. Mio marito ed io preghiamo vostra eccellenza di accettare la sincera espressione della nostra solidarietà e del nostro cordoglio per i superstiti, i feriti e i senza tetto, e di volersene rendere cortese interprete presso di loro”, gli faceva eco la regina Elisabetta.

Nel 2011 il Parlamento italiano deciderà di istituire (con la Legge 14 giugno 2011 n. 101) proprio il 9 ottobre la Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo.

“E’ importante - affermava nell’occasione l’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo - che una giornata come questa contribuisca alla riflessione ed alla consapevolezza, soprattutto da parte delle giovani generazioni, del rispetto che è dovuto al nostro territorio, ai suoi equilibri delicatissimi idrogeologici. Deve rafforzarsi nel paese la coscienza che la nostra Italia, le sue montagne, i suoi fiumi, il suo mare, sono una immensa ricchezza che appartiene a tutti. Una ricchezza fragile che va preservata da interventi che possano alterarne l’assetto, creando sovente le condizioni per il verificarsi di luttuose sciagure. In Italia esistono molte situazioni di emergenza, centinaia di aree in cui c’è il pericolo che si verifichino o ripetano frane, alluvioni o altri eventi potenzialmente disastrosi. In queste realtà note occorre intervenire con misure capaci mettere in sicurezza le aree e le comunità interessate.  (...) Perché la tutela del territorio e della integrità dei suoi abitanti è una priorità che non può essere disattesa mai, nemmeno in tempi di crisi. Perché i costi di tale sottovalutazione in termini umani e ambientali possono essere gravissimi e inaccettabili per il paese”. Anche oggi.


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