L’infanzia di Giuseppe Di Vittorio narrata dal più grande scrittore italiano di favole, Gianni Rodari.
Il racconto fu pubblicato sul «Pioniere» (n. 18, 2 maggio 1954), giornalino rivolto ai bambini edito dall’Associazione Pionieri d’Italia e diretto dallo stesso Rodari.
“La grande masseria pugliese era immersa nel silenzio. Le bestie riposavano nelle stalle. Sotto le tettoie le macchine silenziose non erano che ombre oscure. In un vasto, squallido stanzone, gettati sui pagliericci, sfiniti dalla fatica, dormivano i braccianti. Avreste potuto attraversare tutto lo stanzone passando sui loro corpi, e nemmeno se ne sarebbero accorti. Quattordici, quindici ore di lavoro: e un solo pasto, di pane ed acqua salata. Un breve sonno senza sogni, e presto l’alba li avrebbe chiamati alla fatica nuova. Ma in fondo allo stanzone brillava una candela. Alla sua luce, piccola isola giallastra nel mare del buio, un ragazzo di forse otto, dieci anni vegliava, lottando contro il sonno che gli pesava sulle palpebre e gli faceva come un cerchio di ferro attorno alla testa, folta di capelli nerissimi. Le mani reggevano a stento un libro, talvolta un dito seguiva il segno d’una riga. Prima di addormentarsi i braccianti avevano guardato dalla sua parte. Qualcuno aveva riso: - Peppì, tu sei un signore che spendi i soldi per le candele? - Peppì, non faresti meglio a mangiarla, la candela? - Peppì, tu voi campare di libri? La carta non caccia la fame -. Qualche altro aveva borbottato: - Lasciatelo stare -. Ma senza troppa convinzione. I libri? Roba fatta per i padroni... per i ricchi. E i Di Vittorio erano tutt’altro che ricchi. Dopo che gli era morto il padre, Peppino Di Vittorio, che faceva la seconda elementare, aveva dovuto lasciare la scuola e andare a giornata, a zappare, a grattare la terra, a dormire tutte le notti in quello stanzone, perché la masseria era troppo lontana, e tornare a casa la sera non si poteva. Era stato un brutto giorno, per il ragazzo, l’ultimo giorno di scuola. Aveva avuto ancora una coccarda: la coccarda tricolore del più bravo della classe, che toccava a lui quasi tutti i giorni. E i figli dei ricchi l’avevano scherzato ancora una volta: - Guardate che bella coccarda! - ridevano, e accennavano a una grossa toppa cucita nei pantaloni. Ancora una volta Peppino era arrossito per lo scherzo crudele: la povertà non è vergogna, ma a nessuno piace essere schernito per la sua povertà. - Io non ho colpa, se sono povero - pensava il ragazzo, contemplandosi gli abiti meschini, tenuti insieme a toppe e rammendi.
Aveva lasciato la scuola, ma i libri non li aveva lasciati. Qualche soldo per sé riusciva ad averlo, adesso che lavorava: e si faceva assegnare anche del lavoro straordinario, per avere qualche soldo in più. E ogni volta che la somma bastava, si comperava un libro. Di notte, mentre i suoi compagni dormivano, si ficcava i pugni alle tempie, dandosi dei colpi per tenersi sveglio, e leggeva. Leggeva ogni sorta di libri, tutto quello che gli capitava. A poco a poco i suoi compagni - ragazzi come lui, e uomini fatti, ed anche vecchi braccianti, rugosi come la terra - cessarono di scherzare su quella passione per i libri. Gli si facevano attorno, gli chiedevano: - Che cosa dice il tuo libro? Che cosa c’è scritto? - Allora Peppino era felice: si sentiva ricco, perché gli altri avevano bisogno di lui, perché aveva già qualche cosa da dare agli altri. Per un’ora, per due, prima di dormire, i braccianti ascoltavano le storie che Peppino narrava. Questo però gli rubava tempo per la lettura: allora inventava un finale per la storia. «E’ finita», diceva, e si gettava sul pagliericcio a leggere.
Di giorno, sui campi, era un ragazzo come tutti gli altri: passavano i guardiani a cavallo, passava il padrone, e nessuno avrebbe potuto distinguere dai suoi compagni quel ragazzetto dal viso scuro, quasi schiacciato dalla folta capigliatura nera. Di sera, nel silenzio dello stanzone, rotto dal respiro pesante dei lavoratori addormentati, Peppino era un altro: era solo, in mezzo a tutti e faceva la sua strada. Ogni riga della pagina era un passo in avanti. Ogni pagina, un ostacolo scavalcato. Ogni libro letto, una conquista. Il piccolo ragazzo pugliese si vedeva spalancare davanti un mondo nuovo, pieno di storie meravigliose e terribili, pieno di luci e d’ombre, pieno soprattutto di domande. Perché ci sono i poveri? Perché i poveri sono poveri e i ricchi sono ricchi? Perché noi possiamo avere soltanto pantaloni pezzati, e fame, e fatica, e brutte parole? Perché? Perché? Il ragazzo solleva gli occhi dal libro, si guarda attorno.
La luce della candela gettava occhiate oscillanti sui corpi anneriti dal sole, oppressi dalla fatica: se non fosse stato per il loro respiro, sarebbero sembrati tutti morti. Ah, svegliarli, gridare: «Sorgete uomini, non siete nati per essere schiavi, ma padroni del vostro lavoro e della vostra vita». No, questo pensiero non poteva balenare nella mente del piccolo bracciante di quel tempo: più di cinquant’anni fa... Più di cinquant’anni sono trascorsi da quelle notti, e il piccolo bracciante pugliese è diventato il dirigente di tutti i lavoratori italiani, il presidente della Federazione sindacale mondiale: operai e contadini d’Europa, d’America, d’Asia, d’Africa, d’Australia, conoscono il suo nome e la sua vita, hanno fiducia in lui. La sua parola e la sua lotta hanno contribuito a destare milioni di uomini, a chiamarli alla vita, a insegnare loro che si può trasformare il mondo e renderlo bello e degno. Anche voi potete diventare uomini amati e stimati come Giuseppe Di Vittorio: non ci sarà bisogno per questo - i tempi sono cambiati - che passiate le vostri notti a leggere al lume di candela. Basterà che amiate la giustizia, il sapere, la generosità, il coraggio. Ci sono ancora uomini che dormono, e sarete voi a svegliarli”.
Il racconto fu pubblicato sul «Pioniere» (n. 18, 2 maggio 1954), giornalino rivolto ai bambini edito dall’Associazione Pionieri d’Italia e diretto dallo stesso Rodari.
“La grande masseria pugliese era immersa nel silenzio. Le bestie riposavano nelle stalle. Sotto le tettoie le macchine silenziose non erano che ombre oscure. In un vasto, squallido stanzone, gettati sui pagliericci, sfiniti dalla fatica, dormivano i braccianti. Avreste potuto attraversare tutto lo stanzone passando sui loro corpi, e nemmeno se ne sarebbero accorti. Quattordici, quindici ore di lavoro: e un solo pasto, di pane ed acqua salata. Un breve sonno senza sogni, e presto l’alba li avrebbe chiamati alla fatica nuova. Ma in fondo allo stanzone brillava una candela. Alla sua luce, piccola isola giallastra nel mare del buio, un ragazzo di forse otto, dieci anni vegliava, lottando contro il sonno che gli pesava sulle palpebre e gli faceva come un cerchio di ferro attorno alla testa, folta di capelli nerissimi. Le mani reggevano a stento un libro, talvolta un dito seguiva il segno d’una riga. Prima di addormentarsi i braccianti avevano guardato dalla sua parte. Qualcuno aveva riso: - Peppì, tu sei un signore che spendi i soldi per le candele? - Peppì, non faresti meglio a mangiarla, la candela? - Peppì, tu voi campare di libri? La carta non caccia la fame -. Qualche altro aveva borbottato: - Lasciatelo stare -. Ma senza troppa convinzione. I libri? Roba fatta per i padroni... per i ricchi. E i Di Vittorio erano tutt’altro che ricchi. Dopo che gli era morto il padre, Peppino Di Vittorio, che faceva la seconda elementare, aveva dovuto lasciare la scuola e andare a giornata, a zappare, a grattare la terra, a dormire tutte le notti in quello stanzone, perché la masseria era troppo lontana, e tornare a casa la sera non si poteva. Era stato un brutto giorno, per il ragazzo, l’ultimo giorno di scuola. Aveva avuto ancora una coccarda: la coccarda tricolore del più bravo della classe, che toccava a lui quasi tutti i giorni. E i figli dei ricchi l’avevano scherzato ancora una volta: - Guardate che bella coccarda! - ridevano, e accennavano a una grossa toppa cucita nei pantaloni. Ancora una volta Peppino era arrossito per lo scherzo crudele: la povertà non è vergogna, ma a nessuno piace essere schernito per la sua povertà. - Io non ho colpa, se sono povero - pensava il ragazzo, contemplandosi gli abiti meschini, tenuti insieme a toppe e rammendi.
Aveva lasciato la scuola, ma i libri non li aveva lasciati. Qualche soldo per sé riusciva ad averlo, adesso che lavorava: e si faceva assegnare anche del lavoro straordinario, per avere qualche soldo in più. E ogni volta che la somma bastava, si comperava un libro. Di notte, mentre i suoi compagni dormivano, si ficcava i pugni alle tempie, dandosi dei colpi per tenersi sveglio, e leggeva. Leggeva ogni sorta di libri, tutto quello che gli capitava. A poco a poco i suoi compagni - ragazzi come lui, e uomini fatti, ed anche vecchi braccianti, rugosi come la terra - cessarono di scherzare su quella passione per i libri. Gli si facevano attorno, gli chiedevano: - Che cosa dice il tuo libro? Che cosa c’è scritto? - Allora Peppino era felice: si sentiva ricco, perché gli altri avevano bisogno di lui, perché aveva già qualche cosa da dare agli altri. Per un’ora, per due, prima di dormire, i braccianti ascoltavano le storie che Peppino narrava. Questo però gli rubava tempo per la lettura: allora inventava un finale per la storia. «E’ finita», diceva, e si gettava sul pagliericcio a leggere.
Di giorno, sui campi, era un ragazzo come tutti gli altri: passavano i guardiani a cavallo, passava il padrone, e nessuno avrebbe potuto distinguere dai suoi compagni quel ragazzetto dal viso scuro, quasi schiacciato dalla folta capigliatura nera. Di sera, nel silenzio dello stanzone, rotto dal respiro pesante dei lavoratori addormentati, Peppino era un altro: era solo, in mezzo a tutti e faceva la sua strada. Ogni riga della pagina era un passo in avanti. Ogni pagina, un ostacolo scavalcato. Ogni libro letto, una conquista. Il piccolo ragazzo pugliese si vedeva spalancare davanti un mondo nuovo, pieno di storie meravigliose e terribili, pieno di luci e d’ombre, pieno soprattutto di domande. Perché ci sono i poveri? Perché i poveri sono poveri e i ricchi sono ricchi? Perché noi possiamo avere soltanto pantaloni pezzati, e fame, e fatica, e brutte parole? Perché? Perché? Il ragazzo solleva gli occhi dal libro, si guarda attorno.
La luce della candela gettava occhiate oscillanti sui corpi anneriti dal sole, oppressi dalla fatica: se non fosse stato per il loro respiro, sarebbero sembrati tutti morti. Ah, svegliarli, gridare: «Sorgete uomini, non siete nati per essere schiavi, ma padroni del vostro lavoro e della vostra vita». No, questo pensiero non poteva balenare nella mente del piccolo bracciante di quel tempo: più di cinquant’anni fa... Più di cinquant’anni sono trascorsi da quelle notti, e il piccolo bracciante pugliese è diventato il dirigente di tutti i lavoratori italiani, il presidente della Federazione sindacale mondiale: operai e contadini d’Europa, d’America, d’Asia, d’Africa, d’Australia, conoscono il suo nome e la sua vita, hanno fiducia in lui. La sua parola e la sua lotta hanno contribuito a destare milioni di uomini, a chiamarli alla vita, a insegnare loro che si può trasformare il mondo e renderlo bello e degno. Anche voi potete diventare uomini amati e stimati come Giuseppe Di Vittorio: non ci sarà bisogno per questo - i tempi sono cambiati - che passiate le vostri notti a leggere al lume di candela. Basterà che amiate la giustizia, il sapere, la generosità, il coraggio. Ci sono ancora uomini che dormono, e sarete voi a svegliarli”.
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