Quando Ha Keillah mi ha chiesto un contributo sul rapporto
di mio padre con l’ebraismo, ho avuto un primo moto di stupore. Mi sembrava di
non essere in quanto sua figlia la persona più adatta a parlarne, proprio per
la mancanza di distanza che mi deriva da questo intreccio tra dimensione
pubblica e privata. Ho poi dovuto convenire di avere effettivamente qualcosa da
dire, perché era un tema che nelle conversazioni fra me e mio padre era tornato
frequente, in fasi diverse della vita. Ma prendete queste righe come una pura testimonianza,
che non vuole né può assurgere al livello di una riflessione. E perdonate se
per ricordare il suo ebraismo nell’unico modo che posso, cioè attraverso le mie
percezioni, finisco per parlare troppo spesso del mio modo di essere ebrea.
Nipote di rabbino, mio padre ha vissuto i suoi primi anni
in una moderata osservanza della tradizione, voluta più da suo padre che da sua
madre, Lelia Della Torre, ironica e lontana dalla religione. Non penso che mio
padre abbia mai creduto in Dio, neppure da piccolo, e so dai racconti
famigliari che il suo Bar Mitzwah ha coinciso con l’abbandono della tradizione.
Il suo rapporto con la tradizione religiosa è stato complesso e anche
conflittuale. Quando ci fu a Torino il funerale di mio nonno, richiesto di
recitare il kaddish rispose di ‘non essere preparato’. Eppure, alcuni anni prima aveva chiesto a mio nonno di dare a me
e a miei fratelli Renzo e Bettina la sua benedizione a Shabbath, quando eravamo
da lui. Ricordo ancora con emozione le mani congiunte di mio nonno sul mio
capo, ma allora ignoravo che fosse stata una sua richiesta. Più recentemente,
dopo la mia conversione all’ebraismo, venne per alcuni anni, finché si muoveva
facilmente, ai miei Sedarim di Pasqua e di Rosh ha Shanah, al tempo stesso
intrigato e conflittuale. Temette che io diventassi un’osservante, e trasse un
sospiro di sollievo quando capì che non era così. In realtà, nonostante i
conflitti, il mio ebraismo derivò molto da lui, da quella che ho sempre
percepito in lui come una saldissima identità ebraica […] L’essere ebreo di mio
padre era un dato di fatto: un ebreo impegnato nel percorso politico della
ricostruzione dell’Italia, e non in quello comunitario, un ebreo assolutamente
non credente e laico, ‘assimilato’, ma sempre e intensamente ebreo. I racconti
famigliari, i libri che circolavano per casa, il disprezzo per la scelta della
conversione attuata da altri, e mai nella nostra famiglia, la stessa domanda
frequente di mio padre quando gli parlavamo di qualche amichetto o amichetta, ‘sono
ebrei?’, tutto in casa sottolineava un’appartenenza forte. Un ebraismo senza
religione, vissuto nella Torino del dopoguerra, in un contesto ebraico - antifascista
che lo garantiva e avallava dall’esterno.
Ma quanta parte aveva in questo modo di essere e sentirsi ebrei
la persecuzione, la Shoah? Non ho la sensazione che allora ne avesse molta.
Certo, negli scaffali di casa c’erano tutte le memorie della deportazione. Ma
ciò che definiva allora l’ebraismo di mio padre, e quello dei parenti ed amici
intorno a noi, almeno nella mia percezione di allora, non era tanto la
persecuzione, quanto l’appartenenza ad una minoranza. Le storie
famigliari sulle fughe, i nascondimenti dei miei nonni, erano un elemento
importante ma non esclusivo del quadro. La persecuzione, inoltre, saldava in me
la percezione ebraica con quella antifascista: mio padre era stato condannato
dal Tribunale speciale come antifascista, non come ebreo, come provava il fatto
che fosse stato insieme a lui condannato alla stessa detenzione anche mio
nonno, Michele Giua. E se i miei nonni Foa avevano dovuto vivere sotto falso
nome perché ebrei, quelli Giua lo avevano dovuto fare perché antifascisti. Da
mio padre appresi immediatamente a vivere senza conflitto quelle due parti
della nostra identità.
Altra cosa fu, quando dopo il 1950 venimmo a Roma,
l’ambiente romano e il modo in cui noi ‘ebrei’ torinesi ci inserimmo in esso.
Nella scuola non si parlava né di sterminio degli ebrei né di antifascismo.
Anche allora, vissi commiste le due appartenenze, antifascista ed ebraica, ma
ora, a differenza che nei primi anni torinesi, in contrasto netto con
l’ambiente circostante, come un marchio di diversità. Una diversità che nei
miei ricordi mio padre non soltanto non attenuava, ma mi invitava ad assumere
con orgoglio. Nessun contatto avevamo con la Comunità romana, naturalmente.
Eppure, l’anno scorso, non senza una mia qualche sorpresa, mio padre accolse
con grande gioia, lui, l’ebreo assimilato, la proposta di Leone Paserman di
conferirgli l’appartenenza onoraria alla Comunità Ebraica romana. Era
vecchissimo ed emozionato nella sua casa di Roma, alla presenza di Riccardo Di
Segni, Leone Paserman, Riccardo Pacifici e tanti altri.
Dopo i primi ricordi d’infanzia, l’ebraismo non assume
rilievo nella mia memoria famigliare per molti anni. Questo non vuol dire che
non ci fosse, era semplicemente un dato scontato. Eppure, in quegli anni si
stava costruendo la memoria della Shoah, ed Israele era divenuta per gli ebrei
un saldo pilastro identitario. La mia famiglia era stata estranea al sionismo
sin dai tempi del mio bisnonno, il rabbino capo di Torino Giuseppe Foa, e non
lo aveva recuperato nel dopoguerra, come invece accadde a molta parte del mondo
ebraico italiano. Estraneo, e in alcuni momenti di militanza di estrema
sinistra anche ostile al sionismo, fu mio padre, ma essenzialmente perché vi
vedeva un nazionalismo simile agli altri nazionalismi di cui aveva vissuto le
mortali conseguenze. E questo resta vero in generale, anche se ci sono nella
mia memoria piccoli flash di attenzione famigliare per il nuovo paese degli
ebrei e, più tardi, preoccupazioni per il rischio che Israele correva nei
conflitti. Per mio padre - non ho dubbi perché poi ne abbiamo lungamente
parlato - la preoccupazione dominante era che gli ebrei rinunciassero al loro
universalismo per un nazionalismo basato sull’uso della forza, insomma che si
attenuasse quella tensione morale, frutto della storia non dell’elezione
divina, che ci distingueva nel mondo.
Molti anni dopo, la mia conversione, accompagnata da non
poche letture e studi, e insieme il mio volgermi, nel mio mestiere di storico,
verso la storia degli ebrei, furono occasione di molti scambi di idee fra me e
mio padre, di discussioni, contrasti, condivisioni di letture e
interpretazioni. In questi ultimi anni, in cui la sua progressiva cecità
rendeva necessario leggergli libri e giornali, questo dialogo divenne per forza
di cose più stretto. Negli anni Novanta, quando io passavo una parte del mio
tempo in Israele, venne a trovarmi: era la prima volta che veniva nel paese, e
ne fu molto colpito. I temi della politica israeliana non mancavano mai di sollecitarlo,
di incuriosirlo. Conosceva volentieri i miei amici israeliani e con loro era
attento e pieno di curiosità e domande, mai aggressivo, anche quando, a volte,
non si ritrovava nel loro modo di pensare. Il suo grande amore era la Diaspora,
la condizione diasporica.
Ma ciò che gli premeva di più, in questi anni, era, io
credo, definire di fronte a se stesso, e forse anche nel dialogo che aveva con
me, questa sua identità ebraica, che aveva smesso probabilmente di apparirgli
scontata ed ovvia, in un mondo ormai mutato, in cui la memoria della Shoah era
divenuta onnipresente e la diaspora gli appariva sempre più debole di fronte
all’egemonia di Israele. Quando fu decisa la Giornata della Memoria, ebbe molti
dubbi sull’istituzionalizzazione della memoria che poteva comportare. Io ero
molto più favorevole, e ne discutemmo, ma recentemente ho molto ripensato ai
suoi dubbi. Negli ultimi due o tre anni, gli lessi pezzo per pezzo, man mano
che lo scrivevo, il mio libro sulla storia degli ebrei nel Novecento, che non
ha fatto in tempo a veder pubblicato. Fu occasione di discorsi intensi fra noi,
in cui l’età lo portava spesso ad emozionarsi, ma in cui le sue critiche erano
sempre attente e razionali. A dicembre scorso, gli lessi un pezzo sugli ‘ebrei
senza Dio’, e una citazione di Freud che vi avevo inserito, tratta dalla sua
prefazione all’edizione ebraica del 1930 di Totem e tabù, e che lo
entusiasmò, tanto che l’ho letta al suo funerale, alla CGIL: “Nessun lettore
di questo libro troverà facile mettersi nella posizione emotiva di un autore
che ignora la lingua delle Sacre Scritture, che è completamente estraniato
dalla religione dei suoi padri, come da tutte le altre religioni, e che non
riesce a condividere gli ideali nazionalisti, ma che non ha mai ripudiato il suo
popolo, che sente di essere nella sua essenza un ebreo e che non desidera
cambiare questa sua natura. Se gli si ponesse la domanda: ‘Ma se avete
abbandonato tutte queste caratteristiche comuni dei vostri compatrioti, cosa
resta in voi di ebraico?’ egli risponderebbe: ‘Moltissimo, probabilmente
l’essenziale’. Non potrebbe per ora esprimere a parole questo
essenziale. Ma un giorno o l’altro, sicuramente, esso diventerà accessibile
alla nostra scienza”. In questa frase di Freud mio padre si ritrovò
appieno, e ne riparlò più volte. Diceva che quella frase esprimeva con parole
esatte quello che lui aveva sempre pensato ma mai definito con altrettanta
chiarezza, il suo essere ebreo (Anna Foa, «Ha Keillah», n. 5, dicembre 2008).
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