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Maria Margotti, uccisa perché chiedeva libertà e lavoro - di Ilaria Romeo

Il 17 maggio 1949, a Molinella in provincia di Bologna, Maria Margotti, vedova e madre di due bambine, operaia della fornace cooperativa di Filo (al confine delle provincie di Ferrara e Ravenna), dove aveva trovato da poche settimane occupazione, viene falciata da una raffica di mitra esplosa da un carabiniere. Luciano Romagnoli, segretario generale della Federbraccianti, scriverà di lei sulla Nuova Scintilla del 21 maggio 1949: “È un’altra eroina che aggiunge il suo nome alla lunga schiera di eroi che hanno dato la loro vita per la libertà e per il lavoro”.
Commenta a un anno dagli avvenimenti su l’Unità del 18 maggio 1950 Renata Viganò (autrice di “L’Agnese va a morire”): “È morta come poteva morire qualsiasi altra delle donne del Mulino di Filo, perché sono tutte braccianti e compagne, e allo sciopero tutte aderiscono […]; è diventata un simbolo, una bandiera, la prima bracciante caduta nello sciopero della primavera del ’49, un nome, una figura che esce dai nostri piccoli ricordi di compagni per entrare nel rosso elenco dei caduti per l’umanità, per la gioia, per il lavoro, il pane dell’umanità”.
Gente tutta d’un pezzo, quella di Filo, in particolare i lavoratori del Mulino: ebbero modo di sperimentarlo anche i soldati tedeschi negli ultimi mesi della Resistenza. “Giù verso la Fossetta, verso il gruppo di case dove abitava Maria Margotti, i tedeschi non venivano – prosegue la scrittrice partigiana –. Avevano paura dei partigiani. Non parliamo dei fascisti che erano spariti, fuggiti, dopo quell’ultima impresa di aver dato ai tedeschi i dieci nomi per la rappresaglia. In ogni casa dalla Fossetta in poi, fin nella bonifica allagata, c’erano partigiani, staffette, infermiere, quelle che facevano il pane, quelle che facevano le calze e le maglie. Praticamente la zona era controllata dai partigiani. E anche la Maria Margotti era fra quelle donne, lavorava per i partigiani, faceva qualche cosa per la Resistenza. Ebbene mi piacerebbe sapere dove era in quei giorni il carabiniere che le ha sparato e l’ha ammazzata puntando verso di lei, verso tutto il popolo inerme la canna del mitra bucato come un flauto”.
Può darsi che fosse a Salò, ipotizza ancora Renata Viganò, “o se non a Salò in una succursale della repubblichetta, pronto agli ordini di quel branco di pazzi criminali che erano i suoi padroni, e se non c’era lui, c’era qualcuno di quelli che adesso lo comandano; e c’era poi un altro branco di padroni, allora nascosto in cantina, che sono poi saltati fuori quando non c’era più pericolo a governare in nome di Cristo. Questi ultimi, un tempo, hanno fatto la voce grossa all’estero, si sono vestiti coi colori della Resistenza, si sono fatti proprio grandi di quello che avevano compiuto tutte le piccole Maria Margotti d’Italia, e i fratelli, i figli, i mariti di tutte le Marie Margotti. E adesso dicono a quelli che allora erano o nella repubblica di Salò o nascosti con loro in cantina: sparate, sparate, questa gente ormai non ci serve più. Anzi, ci annoia, ed è pericolosa con quel suo domandare lavoro e pane” (LEGGI TUTTO).
Dalla cronaca degli eventi riferita dalla Camera del lavoro di Bologna alla Cgil nazionale all’ordine del giorno di protesta delle maestranze delle Fonderie Riunite di Modena, triste presagio di ciò che sarebbe a breve anche lì accaduto; dalla proposta Anpi di ospitare a suo carico nel convitto-scuola per orfani di partigiani i figli di Maria Margotti alle indicazioni operative di Giuseppe Di Vittorio per la partecipazione ai funerali, rievochiamo di seguito gli avvenimenti di quella triste giornata attraverso i documenti dell’Archivio storico Cgil nazionale.
I DOCUMENTI:
Pubblicato anche su Rassegna Sindacale del 17 maggio 2017


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