Passa ai contenuti principali

Riccardo Terzi su Pasolini

“Pasolini rappresenta, a mio giudizio, lo sguardo critico che vede per tempo, più di qualsiasi altro, tutto il groviglio delle contraddizioni del “movimento” del ’68, la sua interna fragilità culturale e il suo possibile destino di svuotamento e di fallimento. Ed è una critica condotta dall’interno, in un complicato rapporto tra condivisione e rifiuto, tra attrazione e repulsione, il che lo conduce in una difficile condizione di incomprensione, e spesso di isolamento. La sua tesi di fondo, se è possibile così sintetizzarla, è che tutto il lavoro di negazione, di contestazione, di distruzione delle vecchie forme, finisce per essere, in modo del tutto inconsapevole, funzionale alla modernizzazione capitalistica, che ha bisogno, per potersi liberamente dispiegare, di creare una società di mercato, senza vincoli, senza regole, individualizzata e deresponsabilizzata, dove ci sia, nello stesso tempo, il massimo di libertà apparente e il massimo di dipendenza dai modelli consumistici indotti dal mercato. Il ’68, in questo senso, non ha rappresentato un’alternativa, ma solo un’accelerazione del processo. Pasolini vede dunque che si sta stagliando all’orizzonte una nuova forma sociale, un nuovo modello, neo-capitalistico e consumista, che si libera dei vecchi involucri delle ideologie conservatrici, e che spinge sull’acceleratore del cambiamento, dell’innovazione, del progresso tecnico, dando luogo ad un nuovo stile di vita. E la sinistra, con tutte le sue ingenuità progressiste, finisce per essere del tutto spiazzata, perché la bandiera del progresso e del cambiamento è passata in altre mani. È questo un punto cruciale, ancora oggi attualissimo. Lo sbandamento della sinistra si spiega in larga misura così, come l’effetto del “mito” del progresso, di una visione della storia come un movimento solo ascendente, senza riuscire a vedere i suoi collaterali effetti sociali e culturali. L’errore che abbiamo tutti compiuto negli anni Sessanta è quello di non aver capito questa nuova dialettica della storia. Accade così che le stesse conquiste civili, come quelle dei referendum sul divorzio e sull’aborto, hanno in sé un’ambiguità di significato, perché sono nello stesso tempo un processo di liberazione e un varco che apre la strada verso una forma sociale del tutto individualistica, in cui si perde il senso della responsabilità e del rapporto con l’altro. Nel processo di liberazione, insomma, c’è anche un sottofondo melmoso di egoismo e di cinismo, che via via sembra prendere il sopravvento. Tutto ciò ci rimanda ad un grande nodo politico e filosofico: quale funzione storica può svolgere il momento della negazione, e come esso debba ad un certo punto superare il suo lato negativo per dare luogo ad un processo nuovo di ricostruzione: la negazione della negazione, nel linguaggio di Hegel, l’ordine nuovo, nel linguaggio di Gramsci. La negazione, lasciata solo a se stessa, alla sua dinamica spontanea non crea nessun ordinamento superiore, ma finisce per essere usata da tutte quelle forze che puntano a costruire il loro dominio sulla dissoluzione delle regole e dei legami sociali. È quello che sta accadendo anche nell’attuale crisi politica: dietro l’attacco al sistema dei partiti, dietro il loro imminente collasso, non si annuncia una nuova e più matura democrazia, ma un sistema di potere, tecnocratico e oligarchico, che si può finalmente sbarazzare dei troppo stretti vincoli democratici. Come spesso accade, le più virulente forze anti-sistema fanno il gioco del sistema. E questo era, all’epoca, l’assillo di Pasolini, l’angoscia per un cambiamento che preparava la strada ad un nuovo dominio autoritario, determinando solo un nuovo equilibrio di forze all’interno della classe dominante. È “una lotta che la borghesia combatte con se stessa”, e alla fine della partita c’è un capitalismo più forte, più pervasivo e più aggressivo. E così, in effetti, è accaduto. Pasolini, come è noto, ha sempre guardato al Pci come all’unica autentica forza popolare, anche se era severamente critico verso i suoi tratti autoritari, paternalistici, moralistici. E tra il Pci e Pasolini c’è una sotterranea e fondamentale consonanza. Penso, ad esempio, alla formula di Berlinguer del partito “rivoluzionario e conservatore”, con la quale si vuol tenere insieme il momento della negazione e quello della costruzione. Lo stesso concetto lo troviamo in Pasolini, quando dice, in una delle sue corrispondenze su Vie Nuove, che “i veri tradizionalisti sono i marxisti”, o che “non c’è progresso senza profondi recuperi nel passato”. È una visione della storia che rifiuta il progressismo superficiale, positivista, e cerca di cogliere il complesso rapporto dialettico tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione. A entrambi, Berlinguer e Pasolini, farebbe orrore l’idea della rottamazione. Ora, la negazione, presa in se stessa come il valore assoluto, senza nessuna capacità di comprensione e di recupero del passato, senza avere il senso della complessità dei processi e delle necessarie mediazioni, finisce per sboccare nella pratica del terrorismo. È il “fascismo di sinistra”, contro cui Pasolini combatte, fin dall’inizio, una durissima battaglia. Esso è il prodotto di un vuoto culturale, di una atrofizzazione delle idee e della sensibilità, che viene compensata dal fanatismo di una ideologia astratta, ossificata, che non entra mai in relazione con la realtà vivente, ma la appiattisce e la scarnifica dentro uno schema di violenta semplificazione. E la violenza diviene allora l’unica parola che si è capaci di dire. Gli anni Sessanta, e quelli successivi, non dobbiamo dimenticarlo, sono anche questo, sono il terreno su cui è cresciuta questa pianta degenerata, con tutto il suo carico di cupa e cieca intolleranza, che ha fatto deragliare, per un lungo arco di tempo, tutta la nostra storia politica. L’uccisione di Moro è il momento culminante e di più alto valore, simbolico, proprio perché Moro incarna in sé l’idea della politica come complessità e come mediazione. Se poi viene la restaurazione, è anche l’effetto di questo processo degenerativo. [...] Come dice Pasolini "il non vincere mai, e l’essere votati alla sconfitta, inaridisce." Sta qui il difficile passaggio da compiere, per sfuggire alla morsa che sembra condannarci alla passività subalterna o all’impotenza. È il tema della politica attuale, e anche, in modo ancora più stringente, del sindacato, la cui funzione di rappresentanza si misura sul ritmo della concreta esperienza di vita e di lavoro delle persone”.

Riccardo Terzi, «Inchiesta», gennaio-marzo 2013

Commenti

Post popolari in questo blog

Perché l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano, siano esse streghe o siano esse libere

Ve le ricordate “le due Simone”? Simona Pari e Simona Torretta, rapite nel 2004 a Baghdad nella sede della Ong per cui lavoravano e rientrate a Fiumicino dopo cinque mesi e mezzo di prigionia. “Oche gulive” le definì un giornale (volutamente con l’articolo indeterminativo e la g minuscola!) commentando il desiderio delle due ragazze di ritornare alla loro vita normale precedente il rapimento. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze italiane rapite in Siria più o meno dieci anni dopo, ve le ricordate? Ve le ricordate ancora Carola Rackete, Greta Thunberg, Laura Boldrini, da ultima Giovanna Botteri? Cosa hanno in comune queste donne? Probabilmente tante cose, probabilmente nulla, ma una è talmente evidente da non poter non essere notata: sono state tutte, senza pietà e senza rispetto, lapidate sul web. Perché verrebbe da chiedersi? E la risposta che sono riuscita a darmi è solamente una: perché sono donne indipendenti, nel senso più vero ed intimo della parola. An

Franca Rame, Lo stupro

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore… Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare. Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando. Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso? Non lo so. È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me l

Nel suo volto la storia dei cafoni

Pepite d’Archivio: ancora Gianni Rodari su Giuseppe Di Vittorio in un NUOVO, bellissimo testo da leggere tutto d’un fiato. Il brano, recuperato da Ilaria Romeo (responsabile dell’Archivio storico CGIL nazionale che lo conserva)  è tratto da «Paese Sera» del 3 novembre 1977 “Il 3 novembre del 1957 moriva a Lecco, dove si era recato per inaugurare la sede della Camera del lavoro, Giuseppe Di Vittorio. Ricordo la commozione di quelle ore, mentre la salma veniva trasportata a Roma per i funerali. Ricordo quei funerali. Roma ne ha conosciuti di più grandiosi. Quello di Togliatti, anni dopo, ebbe le proporzioni di una gigantesca manifestazione di forza. Ma non si è mai vista tanta gente piangere come ai funerali di Di Vittorio. Anche molti carabinieri del servizio d’ordine avevano le lacrime agli occhi. La cosa non stupiva. Di Vittorio non era stato solo il capo della Cgil e per lunghi anni un dirigente tra i più popolari del Pci: era diventato un uomo di tutti, stava nel cuore de