“Pasolini rappresenta, a mio giudizio, lo sguardo
critico che vede per tempo, più di qualsiasi altro, tutto il groviglio delle
contraddizioni del “movimento” del ’68, la sua interna fragilità culturale e il
suo possibile destino di svuotamento e di fallimento. Ed è una critica condotta
dall’interno, in un complicato rapporto tra condivisione e rifiuto, tra
attrazione e repulsione, il che lo conduce in una difficile condizione di
incomprensione, e spesso di isolamento. La sua
tesi di fondo, se è possibile così sintetizzarla, è che tutto il lavoro di
negazione, di contestazione, di distruzione delle vecchie forme, finisce per
essere, in modo del tutto inconsapevole, funzionale alla modernizzazione
capitalistica, che ha bisogno, per potersi liberamente dispiegare, di creare
una società di mercato, senza vincoli, senza regole, individualizzata e
deresponsabilizzata, dove ci sia, nello stesso tempo, il massimo di libertà
apparente e il massimo di dipendenza dai modelli consumistici indotti dal
mercato. Il ’68, in questo senso, non ha rappresentato un’alternativa, ma solo
un’accelerazione del processo. Pasolini vede dunque che si sta stagliando all’orizzonte
una nuova forma sociale, un nuovo modello, neo-capitalistico e consumista, che si
libera dei vecchi involucri delle ideologie conservatrici, e che spinge sull’acceleratore
del cambiamento, dell’innovazione, del progresso tecnico, dando luogo ad un
nuovo stile di vita. E la sinistra, con tutte le sue ingenuità progressiste,
finisce per essere del tutto spiazzata, perché la bandiera del progresso e del
cambiamento è passata in altre mani. È questo un punto cruciale, ancora oggi
attualissimo. Lo sbandamento della sinistra si spiega in larga misura così,
come l’effetto del “mito” del progresso, di una visione della storia come un
movimento solo ascendente, senza riuscire a vedere i suoi collaterali effetti
sociali e culturali. L’errore che abbiamo tutti compiuto negli anni Sessanta è
quello di non aver capito questa nuova dialettica della storia. Accade così che
le stesse conquiste civili, come quelle dei referendum sul divorzio e sull’aborto,
hanno in sé un’ambiguità di significato, perché sono nello stesso tempo un
processo di liberazione e un varco che apre la strada verso una forma sociale
del tutto individualistica, in cui si perde il senso della responsabilità e del
rapporto con l’altro. Nel processo di liberazione, insomma, c’è anche un
sottofondo melmoso di egoismo e di cinismo, che via via sembra prendere il
sopravvento. Tutto ciò ci rimanda ad un grande nodo politico e filosofico:
quale funzione storica può svolgere il momento della negazione, e come esso
debba ad un certo punto superare il suo lato negativo per dare luogo ad un
processo nuovo di ricostruzione: la negazione della negazione, nel linguaggio
di Hegel, l’ordine nuovo, nel linguaggio di Gramsci. La negazione, lasciata
solo a se stessa, alla sua dinamica spontanea non crea nessun ordinamento superiore,
ma finisce per essere usata da tutte quelle forze che puntano a costruire il
loro dominio sulla dissoluzione delle regole e dei legami sociali. È quello che
sta accadendo anche nell’attuale crisi politica: dietro l’attacco al sistema
dei partiti, dietro il loro imminente collasso, non si annuncia una nuova e più
matura democrazia, ma un sistema di potere, tecnocratico e oligarchico, che si
può finalmente sbarazzare dei troppo stretti vincoli democratici. Come spesso
accade, le più virulente forze anti-sistema fanno il gioco del sistema. E questo
era, all’epoca, l’assillo di Pasolini, l’angoscia per un cambiamento che
preparava la strada ad un nuovo dominio autoritario, determinando solo un nuovo
equilibrio di forze all’interno della classe dominante. È “una lotta che la
borghesia combatte con se stessa”, e alla fine della partita c’è un capitalismo
più forte, più pervasivo e più aggressivo. E così, in effetti, è accaduto. Pasolini,
come è noto, ha sempre guardato al Pci come all’unica autentica forza popolare,
anche se era severamente critico verso i suoi tratti autoritari,
paternalistici, moralistici. E tra il Pci e Pasolini c’è una sotterranea e
fondamentale consonanza. Penso, ad esempio, alla formula di Berlinguer del
partito “rivoluzionario e conservatore”, con la quale si vuol tenere insieme il
momento della negazione e quello della costruzione. Lo stesso concetto lo
troviamo in Pasolini, quando dice, in una delle sue corrispondenze su Vie
Nuove, che “i veri tradizionalisti sono i marxisti”, o che “non c’è progresso
senza profondi recuperi nel passato”. È una visione della storia che rifiuta il
progressismo superficiale, positivista, e cerca di cogliere il complesso rapporto
dialettico tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione. A entrambi,
Berlinguer e Pasolini, farebbe orrore l’idea della rottamazione. Ora, la
negazione, presa in se stessa come il valore assoluto, senza nessuna capacità
di comprensione e di recupero del passato, senza avere il senso della
complessità dei processi e delle necessarie mediazioni, finisce per sboccare
nella pratica del terrorismo. È il “fascismo di sinistra”, contro cui Pasolini
combatte, fin dall’inizio, una durissima battaglia. Esso è il prodotto di un
vuoto culturale, di una atrofizzazione delle idee e della sensibilità, che
viene compensata dal fanatismo di una ideologia astratta, ossificata, che non
entra mai in relazione con la realtà vivente, ma la appiattisce e la scarnifica
dentro uno schema di violenta semplificazione. E la violenza diviene allora l’unica
parola che si è capaci di dire. Gli anni Sessanta, e quelli successivi, non
dobbiamo dimenticarlo, sono anche questo, sono il terreno su cui è cresciuta
questa pianta degenerata, con tutto il suo carico di cupa e cieca intolleranza,
che ha fatto deragliare, per un lungo arco di tempo, tutta la nostra storia
politica. L’uccisione di Moro è il momento culminante e di più alto valore,
simbolico, proprio perché Moro incarna in sé l’idea della politica come
complessità e come mediazione. Se poi viene la restaurazione, è anche l’effetto
di questo processo degenerativo. [...] Come
dice Pasolini "il non vincere mai, e l’essere votati alla sconfitta,
inaridisce." Sta qui il difficile passaggio da compiere, per sfuggire alla
morsa che sembra condannarci alla passività subalterna o all’impotenza. È il
tema della politica attuale, e anche, in modo ancora più stringente, del
sindacato, la cui funzione di rappresentanza si misura sul ritmo della concreta
esperienza di vita e di lavoro delle persone”.
Riccardo Terzi, «Inchiesta»,
gennaio-marzo 2013
Commenti
Posta un commento