Quando uccisero
Giuditta Levato
di Ilaria Romeo
responsabile Archivio
storico CGIL nazionale
Il 28 novembre 1946 muore a Calabricata
(Catanzaro) Giuditta Levato (31 anni) contadina, prima vittima della lotta al
latifondo in Calabria, colpita da un colpo di fucile quando era incinta
di sette mesi del suo terzo figlio.
Prima di morire riuscirà a lasciare il suo
testamento spirituale al senatore Pasquale Poerio che si era precipitato al suo
capezzale.
“Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli
altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti - dirà in
punto di morte Giuditta - Ho tutto dato
io alla nostra causa, per i contadini, per la nostra idea; ho dato me stessa,
la mia giovinezza; ho sacrificato la mia felicità di giovane sposa e di giovane
mamma. Ai miei figli, essi sono piccoli e non capiscono ancora, dirai che io
sono partita per un lungo viaggio, ma ritornerò certamente, sicuramente. A mio
padre, a mia madre, ai miei fratelli, alle mie sorelle, dirai che non voglio
che mi piangano, voglio che combattano, combattano con me, più di me per
vendicarmi. A mio marito dirai che l’ho amato, e perciò muoio, perché volevo un
libero cittadino e non un reduce umiliato e offeso da quegli stessi agrari per
cui ha tanto combattuto e sofferto. Ma tu, o compagno vai al mio paesello e ai
miei contadini, ai compagni, dì che tornerò al villaggio nel giorno in cui suoneranno
le campane a stormo in tutta la vallata”.
Dirà a sua volta Pasquale Poerio durante un
comizio tenuto qualche tempo dopo l’assassinio: “Forse o lavoratori, non avrei
capito nella sua interezza il sacrificio di Giuditta Levato se non fossi venuto
qui, a Calabricata. L’esser venuto qui, l’aver veduto le vostre case basse e
affumicate, il vostro villaggio senza strade, i vostri bimbi senza niente sulla
carne che li possa riparare dall’inverno, le vostre donne, i vostri uomini
coperti solo di cenci, con su le facce i segni del lavoro e della fame,
spettacolo terribile di miseria, mi ha fatto capire appieno il sacrificio della
vostra compaesana che non appartiene più solo a voi, ma ai contadini di tutta
la Calabria, a tutti i lavoratori della terra d’Italia.
Lei, da quel mattino in cui esalava l’anima nello Ospedale civile di Catanzaro,
apparteneva a tutto il movimento di redenzione della massa contadina della
nostra provincia che, iniziatosi il 17 ottobre del 1944 nella zona dell’alto e
medio Crotonese, doveva diventare il 17 settembre del 1946, un grande movimento
al quale partecipavano 96 comuni con cinquantamila contadini. La prima
vittima della nostra provincia, che doveva cadere sotto al piombo degli agrari,
è nata qui in Calabricata, villaggio disperso nel basso Crotonese covo di duchi
principi e baroni. E così accanto ad Argentina Altobelli, la figlia dei
borghesi emiliani, combattente senza tregua per la causa della redenzione dei
lavoratori della terra, siederà da oggi in poi Giuditta Levato, l’umile contadina
calabrese che tutto sacrificò per la redenzione dei suoi fratelli, se stessa,
la propria giovinezza, la propria famiglia. Di lei, della sua vita semplice
poche cose si possono dire. Accade sempre così, quando si deve parlare dei
martiri: modesti fuochi, che poi, inaspettatamente divampano, travolgendo se
stessi ed altri e lasciandosi dietro una scia luminosa che segna il cammino da
seguire.
Nata il 18 agosto 1915 a Calabricata di Albi da Salvatore Levato, lavoratore
della terra, e da Rosa Romania, ottima madre e contadina, passò i suoi anni tra
la casa e la terra ad aiutare il padre ed i fratelli nel lavoro dei campi:
lavoro spesso ingrato, ma sempre onesto e buono che se abbrutisce la carne,
tempra con la sua durezza l’animo. Nella sua giovinezza vi sono molti episodi
di bontà. Sempre premurosa con i fratelli, si può dire la seconda mamma di
famiglia, giacché tutto a lei confidavano amore e dolore, gioie e disinganni.
Sposò a ventun’anni un giovane contadino, Scumaci Pietro che la lasciò madre
quando nel 1941 venne chiamato alle armi. Venne chiamato ad offrire i più begli
anni della propria giovinezza, non per la patria grande e immortale, non per i
propri figli, ma per difendere gli interessi e la libidine di potere di quegli
stessi agrari per mano dei quali doveva cadere più tardi uccisa la giovane
sposa.
Negli anni della guerra Giuditta continuò nei campi e nella casa, accanto al
buon padre l’opera del marito. Seminò, coltivò la terra, raccolse il grano,
diede il pane ai figli, fece in modo che i bambini non sentissero la mancanza
del genitore lontano. Passata la tragedia della guerra, si ricomponeva e si
ridava vita a quella felicità che era nata tra il lavoro dei campi, l’affetto
della sposa e il dono dei figli. Passarono i mesi.
Un giorno, un giovane che si disse Comunista, venne nel disperso villaggio e
parlò un linguaggio nuovo: li chiamò compagni e fratelli di lotta per la
redenzione del proletariato. Questo parlare nuovo, semplice, veramente
cristiano e fraterno, convinse Giuditta ad entrare nel grande Partito, di cui
intuì l’idea e la missione. Per il suo lavoro appassionato, nacque la Sezione
prima, la Cooperativa e la Lega dopo. Si dice che parlasse in maniera buona, in
maniera semplice con linguaggio solito ai contadini di questa grande idea che
si chiama Comunismo, che libera gli uomini dal bisogno, che libera gli uomini
dalle guerre, che li fa diventare più buoni, più onesti, più umani. Lei, la
sposa e la sorella di contadini combattenti, la madre dei bimbi mal vestiti,
aveva nobilmente intuito e voleva che i lavoratori del suo paese, avessero
insieme agli uomini di tutta l’umanità, la libertà dal bisogno e la fine delle
guerre. Pensava finalmente, di poter dare tutta la terra che circonda le case basse ed
affumicate dalla sua piccola Calabricata, la terra che si stende immensa e che
è il dominio di pochi padroni, a tutti i lavoratori del villaggio. Forse per un
sogno che le era parso sin da bambina: sin da quando seguendo il padre nei
campi lo sentiva lamentare per la scarsezza della terra da coltivare e per la
esosità dei padroni. Forse sin d’allora la bella Giuditta aveva pensato di
poter un giorno dividere tutta quella terra ai contadini poveri del suo
paesello, e fare di quella sterile vallata un immenso giardino.
E il giorno
sognato venne: 17 settembre 1946. Fu festa per tutti: le campane della chiesetta del villaggio incominciarono a
suonare dalle prime ore del mattino, per chiamare i contadini a raccolta. Di
lontano giungeva l’eco delle altre campane dei paesi vicini. E gente, gente per
le campagne vicine con bandiere rosse, con bandiere tricolore. Fu festa per
lei, per la bella Giuditta che era in testa a tutti e cantava: Avanti o popolo
a la riscossa … Cantavano e piangevano tutti per la commozione. Le campane
suonavano a stormo per tutta la vallata. Ma troppo grande era la vittoria,
troppo la contentezza, troppo Giuditta aveva fatto perché gli agrari la
potessero lasciare impunita.
Venne il 28 novembre e il grosso massaio Pietro Mazza, volle sfidare con la
complicità di un ignobile servo, la buona volontà dei contadini di Calabricata.
Nel tardo mattino si recava nel suo fondo, richiesto e contestato dalla lega,
per seminarlo. Ne fu avvertita Giuditta che chiamò tutte le donne a raccolta,
tutte le mamme contadine, tutte le spose dei combattenti: e andarono sul luogo
per impedire al ricco massaio di seminare la terra contesa. L’offesa era grave
per il massaio che vilmente con l’aiuto di un servo sparò sulla Giuditta la
temibile avversaria che dava forza e coraggio ai contadini, a voi o compagni di
Calabricata perché vi svincolasse dalla servitù. E la giovane sposa, che
sarebbe stata per la terza volta mamma fra pochi mesi fu ferita al ventre. Ma
non si abbatté, sedette per terra, si vide la ferita, e alle altre mamme, alle
altre spose ordinò che acciuffassero i vigliacchi, perché la lotta non era
finita. Si, la lotta, o Giuditta, non è finita; anzi non è neppure
incominciata, come tu giustamente mi dicevi sul letto di morte nell’Ospedale di
Catanzaro.
Ricordo, ricordo le tue parole: 'Compagno, dillo, dillo a tutti i capi, e agli
altri compagni che io sono morta per loro, che io sono morta per tutti […]'.
Ed io, o lavoratori di
Calabricata, sono venuto. Ho mantenuto la promessa e sono con voi. Ho veduto le vostre case basse, affumicate e piene di miseria. Ho veduto i
vostri bimbi scalzi e pieni di fame. Ho capito perché Giuditta Levato si è
sacrificata. Ho veduto le vostre pagliaie, questo cumulo di catapecchie senza
un cimitero e senza una fontana ed ho veramente compreso le ultime lacrime di
Giuditta Levato, sul letto di morte. Ma la vendicheremo! E quando, nuovamente
suoneranno a stormo le campane, per dire che l’ora della riscossa finalmente è
venuta, questo piccolo borgo senza strade, diventerà il centro ideale di tutti
i lavoratori d’Italia”.
Sono passati 72 anni da quell’eccidio e Giuditta Levato continua
a rappresentare l’emblema delle lotte per
la dignità e l’emancipazione degli oppressi, una tematica ancora
attuale, probabilmente oggi più che mai.
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