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Luciano Lama nei ricordi di Sergio Flamigni

A pochi giorni dalle elezioni europee ricordiamo Luciano Lama attraverso le parole - attualissime - di Sergio Flamigni, partigiano, parlamentare del Partito comunista italiano dal 1968 al 1987, membro delle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, sulla Loggia P2 e Antimafia, pronunciate in occasione del primo anniversario della morte (il documento è custodito dall’Archivio storico CGIL nazionale, Fondo Luciano Lama, secondo versamento).

“Ho pensato - dirà nell’occasione Flamigni - che il modo migliore, per me, di ricordare Luciano, fosse quello di testimoniarvi il percorso che lo portò alla Segreteria generale dell’appena ricostituita Camera del lavoro di Forlì. Per chi - studioso, storico, ricercatore - volesse impegnarsi in una biografia di Luciano; o studente, volesse elaborare una tesi di laurea su Luciano; ed anche per mantenere viva la storia fra di noi, ho pensato di ovviare alla lacuna formale esistente e di rendere una testimonianza ufficiale da mettere agli atti”.

“Ho conosciuto Luciano Lama nel 1944 - racconta Flamigni - durante la guerra di Liberazione, in un momento difficile e di riorganizzazione della Resistenza in Romagna. In aprile le brigate partigiane attestate sulla zona montagnosa della nostra Provincia, pur infliggendo perdite ai nazifascisti, avevano subito una dura sconfitta militare ed erano state scompaginate dal rastrellamento compiuto da reparti fascisti e da una divisione delle SS tedesche che portava il nome di Hermann Goering, uno dei più autorevoli gerarchi nazisti che alla fine del conflitto è poi stato processato e giustiziato dal tribunale di Norimberga per crimini di guerra. Negli organi dirigenti clandestini del Pci si era discusso molto delle cause di quella sconfitta, dei rimedi da adottare. Ricordo una riunione svolta a San Leonardo con l’intervento di un compagno del Comando generale delle Brigate Garibaldi dove venne deciso di svolgere un nuovo lavoro politico e organizzativo per estendere la lotta partigiana su tutto il territorio romagnolo. Furono stabiliti i nuovi criteri dell’organizzazione dei partigiani in montagna, formando l’8ͣ Brigata, comandata da Pietro Tabarri. Era presente a quella riunione anche il compagno Arrigo Boldrini che fu incaricato di organizzare nel basso ravennate la 28ͣ Brigata Gap. Nelle campagne e nelle città di Forlì, Cesena e Rimini doveva essere costituita la 29ͣ Brigata Gap. Venne preposto a comandante della costituenda Brigata, Umberto Caselli di Cesena, affiancato dal sottoscritto quale commissario politico. Assieme ad altri compagni che avevano esperienze di azioni militari dei Gap, ci buttammo anima e corpo nel nuovo lavoro. Dovevamo compiere una selezione severa nel formare i quadri e i combattenti della nuova organizzazione. Recuperare gli sbandati, educarli alla disciplina per rendere l’organizzazione impenetrabile al nemico, guidare le nuove reclute a procurarsi le armi e a compiere azioni militari. Fu allora che, tramite i regolari collegamenti dell’organizzazione, Luciano Lama chiese di venire con noi per combattere i tedeschi e i fascisti. Toccò a me esaminarne la biografia. Ci eravamo dati la regola che prima di ammettere nei ranghi uno nuovo, dovevamo esaminarlo attentamente, assumere tutte le informazioni possibili. A presentarmelo e a garantirlo fu uno che conoscevo come un bravo comunista, un ferroviere, amico e collega del padre di Luciano. L’incontro avvenne lungo un grande fosso, in mezzo ai campi di grano, nei pressi di San Leonardo; era presente anche un altro compagno. Parlammo a lungo. Rispose a tante domande. Man mano che parlava e raccontava, conquistava la mia simpatia. Notai che avevamo le stesse aspirazioni ideali di libertà e giustizia sociale, gli stessi gusti culturali che si nutrivano di umanesimo; mi parlò delle sue letture dei romanzieri sociali francesi e inglesi, della sua ammirazione per gli scrittori russi Tolstoj, Dostoevskij, Gogol. Mi disse che aveva studiato scienze sociali a Firenze ed aveva potuto leggere un compendio del capitale di Carlo Marx in tedesco e difatti conosceva bene il tedesco. Luciano mi faceva sentire la nostalgia per gli studi interrotti dall’invasione tedesca. Negli anni ‘41, ‘42, ‘43 feci parte di un gruppo di giovani studenti e operai antifascisti che coi propri risparmi avevano messo insieme una biblioteca clandestina contenente anche libri di autori proibiti dal fascismo. Un giovane operaio portò in dote alla biblioteca il primo volume del capitale di Marx che era riuscito a sottrarre alla biblioteca comunale. Nei giorni festivi ci riunivamo e discutevamo sulle nostre letture. Quanta sete di libertà e quanta utopia vi era nelle nostre discussioni giovanili. Con la stessa sete di libertà e con gli stessi orizzonti di utopia mi capiterà di discutere con Luciano e con tanti altri compagni della nostra Brigata sulla società futura che avremmo costruito in Italia dopo la cacciata dei nazifascisti. In quell’incontro Luciano mi disse che aveva saputo da poco che il fratello Lelio era stata fucilato a Stia, assieme a numerosi partigiani fatti prigionieri dai tedeschi durante un rastrellamento in montagna; parlava angosciato e si capiva che oltre alle ragioni politiche e ideali per combattere i nazifascisti aveva quel conto aperto e pesante da regolare. Ebbi quindi la certezza che sul piano ideale e politico Luciano era dei nostri, anche se non aveva militato in nessun partito e poteva entrare nella Brigata. Passammo quindi a trattare delle sue esperienze militari. Era ufficiale di complemento dell’esercito, ma disse subito che non aveva mai sparato un colpo in combattimento e che la sua istruzione militare era limitata alla vita di caserma e non serviva alla nostra strategia. L’8 settembre 1943 era in servizio a Borello di Cesena, al comando di un reparto di reclute da addestrare che aveva appena indossato la divisa militare e non erano in grado di fronteggiare i tedeschi. In accordo con i compagni di Cesena prese la decisione di sciogliere il campo e di consegnare tutte le armi e le vettovaglie al comitato antifascista, armi che furono trasportate in montagna e servirono per le prime formazioni partigiane. Alla chiamata della Repubblichina di Salò non si presentò e iniziò la sua vita clandestina. Sotto falso nome, in accordo con un professore antifascista dell’Università di Firenze, sostenne la tesi su Le case coloniche della mezzadria in Romagna. La laurea gli sarà consegnata con il suo vero nome, solo dopo la Liberazione, dal Rettore Piero Calamandrei. Ai primi di dicembre ‘43 i compagni di Ronta lo aiutarono a raggiungere i partigiani in montagna. Gli fu affidato il comando di una compagnia di una ventina di partigiani di stanza a Ridracoli. Il comandante della Brigata era un ex ufficiale di carriera, inesperto di guerriglia, per cui le forze non venivano impegnate a dovere. La compagnia di Luciano compì solo qualche azione con mine sulle strade contro autocarri. Arrivò l’inverno con tanta neve che cancellava i sentieri e costringeva all’immobilità. Nel febbraio ‘44 Luciano si ammalò di broncopolmonite e poiché il medico della Brigata non aveva le medicine per curarlo, il commissario politico decise che avrebbe dovuto scendere in pianura e ritornare dopo la guarigione. A guarigione avvenuta venne a cercare noi, anche se era più difficile che in montagna condurre la lotta in un territorio sempre più occupato dai tedeschi, dove scorazzavano le bande nere in cerca di antifascisti e renitenti alla leva, dove cresceva il numero dei deportati nei campi di concentramento nazisti, cresceva il numero degli antifascisti arrestati e incarcerati, aumentavano i fucilati, gli impiccati per rappresaglia contro le azioni della guerriglia. Così Luciano Lama entrò nella nostra Brigata, diventò Gappista, prese come nome di battaglia Boris (era un amante della musica lirica e in particolare gli piaceva il Boris Godunov di Musorgskij) e con quel nome svolse importanti compiti dell’organizzazione militare. Da quel momento dividemmo assieme sacrifici e risultati, atti temerari e paure, rischi e soddisfazioni. In diverse occasioni scampammo alla morte quasi per miracolo e quando penso alle tante volte che la fortuna ci ha assistito mi sembra che dovessimo la sopravvivenza a qualcosa di misterioso. In certe notti calde d’estate, quando il nostro letto era la terra in mezzo ai campi di grano, mentre eravamo sdraiati sotto le stelle, è capitato di interrogarci sul significato della vita. Vedevamo la morte mietere vittime ogni giorno in misura maggiore. Eravamo nel mezzo di una guerra e tante altre ve ne erano state, ma ci sembrava che gli uomini non avessero imparato nulla dalla storia. Tante cose ci sembravano assurde, il razzismo innanzitutto. L’umanità ci appariva dominata da meccanismi che uccidevano i sentimenti di umanità. Alla base vi erano le leggi economiche del grande capitale e del grande profitto, la possessività, la sete di potere, l’imperialismo. Il grande problema ci sembrava quello della liberazione dell’umanità da quei meccanismi: era questo il comunismo che noi sognavamo là sotto le stelle […] Mi permetto di ricordare alcune azioni compiute assieme a Luciano e che egli amava ricordare perché erano state incruente, erano riuscite senza causare vittime. Ha scritto Lama: «Devo dire francamente che la lotta armata, quando è necessaria per grandi motivi ideali e sociali, bisogna farla e la feci, ma non rimpiango quei tempi di ferro, anche se furono i più formativi per il resto della mia vita […] Uccidere un uomo, in quelle condizioni di scontro feroce, può essere inevitabile e bisogna farlo e si fa, ma l’atto in sé resta ripugnante. Ricordo le prime volte, la nausea fisica che mi prendeva, pur avendo coscienza di avere adempiuto ad un dovere inderogabile e volontariamente assunto». In questo brano trovo l’eco di riflessioni che ci siamo scambiati in quei momenti duri e difficili vissuti assieme. La nostra scelta di lottare per la libertà era stata una scelta innanzitutto morale. Per noi etica e libertà coincidevano. Vi era un tema su cui mi piaceva confrontarmi con lui, un tema etico, filosofico, quello del rapporto tra coscienza critica e libertà. Ci dicevamo che un uomo può essere libero se sa usare della sua coscienza critica, del suo spirito critico, se riflette per avere coscienza di quello che fa e perché lo fa; solo così può essere se stesso; un uomo è libero se sa essere se stesso. Ricordo l’azione dei primi di agosto ‘44 alla Sita, l’azienda dei trasporti. I compagni che lavoravano alla Sita ci fecero sapere che l’azienda doveva mettere a disposizione per le sei del mattino del giorno dopo gli autobus con i relativi autisti per deportare in Germania centinaia di lavoratori catturati in operazioni di rastrellamento. Nella tarda serata quando tutti gli autobus erano rientrati ai depositi vi fu l’intervento dei Gap. Mentre all’esterno facevamo la guardia, Luciano, all’interno dei depositi, munito di un grosso martello e di scalpello causava gravi guasti ai motori degli autobus. Appena tutti gli automezzi furono resi inutilizzabili ci ritirammo in campagna, nei nostri rifugi. Un’altra azione che Luciano amava ricordare fu l’assalto alle carceri di Forlì. A seguito di un’azione di guerriglia in cui erano stati uccisi due graduati tedeschi, il comando di piazza tedesco aveva predisposto la fucilazione per rappresaglia di tutti i detenuti politici rinchiusi nel carcere di Forlì. L’esecuzione era fissata per le 16 del pomeriggio. Il CLN informò il Comando della 29ͣ alle 11 del mattino chiedendo di intervenire per liberare i detenuti. Condizione preliminare per predisporre qualsiasi piano era acquisire informazioni aggiornate sulle forze da fronteggiare, sulla disposizione delle celle in cui erano rinchiusi i nostri compagni e amici detenuti. Luciano si offrì per compiere la perlustrazione necessaria. Conosceva un dirigente della Banca commerciale che era amico del direttore del carcere, lo andò subito a trovare e si fece accompagnare in carcere dal direttore. Intanto io e una staffetta raggiungevamo in bicicletta elementi dei Gap e alcuni anche delle Sap della città e delle località più vicine come Vecchiazzano e San Martino in Strada. Chiedevamo di trovarsi armati e con la bicicletta per le 13 in un punto dell’aeroporto: una voragine causata da una bomba ad alto potenziale. Arrivò anche Luciano che ci portò le notizie precise, aveva potuto visitare il carcere. I politici erano rinchiusi nell’ultimo braccio e per arrivarci bisognava impadronirsi del corpo di guardia all’entrata, attraversare cortili e bracci disarmando 18 guardie in tre tappe successive. Mentre due compagni corsero a vestirsi da fascisti perfezionammo il piano. Bisognava agire dopo le 14, l’ora del cambio del turno delle guardie. Decidemmo che Luciano non partecipasse, per evitare il rischio di ritorsioni sul suo amico che l’aveva accompagnato in carcere. Alle 14.30 circa partimmo alla spicciolata in bicicletta, all’avventura, verso il carcere. Eravamo tredici, una compagna e dodici compagni. Una passeggiata con il cuore in gola, una fila che si serrava più si avvicinava al carcere, con in testa due in divisa da fascisti delle M M, armati di mitra e seguiti subito da un giovane. A breve distanza dalla portineria del carcere i primi tre lasciarono le biciclette, il giovane si tolse la giacca e si pose in mezzo ai militi, era tutto scapigliato, lacero, con la camicia strappata. Uno dei militi si affacciò alla feritoia della portineria e ordinò perentorio: «Aprite, aprite, abbiamo catturato un capo partigiano, un mascalzone criminale». Appena la porta si aprì i falsi militi disarmarono le due guardie di servizio e gli altri partigiani occuparono la portineria richiudendo la porta. Uno prese servizio davanti allo sportello con feritoia vestendo berretto e giacca della guardia carceraria. Poi l’azione proseguì secondo i piani. Disarmammo tutte le guardie, liberammo 36 detenuti politici, ne approfittarono anche due comuni, due scopini che prestavano servizio nel braccio dei politici. E’ un film che mi passa ancora oggi davanti agli occhi. Man mano che i secondini, sotto l’intimazione delle armi aprivano le celle, i detenuti sciamavano via, sembrava volassero, era talmente veloce il movimento dei loro piedi che sembrava non toccassero il pavimento. Chiudemmo le 18 guardie e il personale del carcere nelle celle e portai con me le chiavi. Tutto si svolse senza sparare un colpo. Alla sera quando rividi Luciano a San Leonardo, dove aveva sede il comando della Brigata, gli raccontai come era andata, mi abbracciò e disse: «E’ stata, è un’opera d’arte che ci appartiene e ci apparterrà per tutta la vita». Per me era la conferma che fino allora se avevamo salvato la pelle era perché dovevamo creare quell’opera d’arte e altre ancora. Come la creatività è una grande forza che sta dentro all’artista, mi sembrava che dentro di noi avessimo una grande forza che ci salvava la pelle, ci conservava la vita per realizzare grandi cose, belle e buone. Tra un’azione e l’altra discutevamo molto di politica, con i nostri gappisti. Discutevamo anche di rivoluzione. Le vittorie dell’Esercito Rosso venivano esaltate per nutrire la speranza di una rapida fine della guerra. Era un modo anche per non pensare ai rischi mortali che correvamo. Quando Lama ha scritto che quegli anni di ferro sono stati i più formativi per il resto della sua vita, certamente si voleva riferire anche al grande valore della partecipazione popolare realizzata nella guerra di Liberazione qui, nella nostra Romagna. Ritorno a un passo da lui scritto: «La Resistenza è stata una vera epopea, scritta da giovani coraggiosi, nella storia d’Italia; ma il suo valore sta nell’azione di massa, nel moto popolare che esprimeva. Ogni singolo fatto d’armi, per quanto fosse segno di abnegazione dei partecipanti, contiene per me quasi sempre - presso a sé - un fondo di crudeltà, una fatale contraddizione con il senso dell’umanità che non sono mai riuscito a superare del tutto. Questo è stato, in fondo, il dramma segreto che ho intimamente vissuto in quel periodo, ogni volta che la lotta ci costringeva ad uccidere. Lo feci sempre come un doloroso dovere, con una sorta di ripugnanza ricorrente e mai definitivamente vinta». Vi è qui sottolineato il valore di massa della Resistenza. […] la nostra Brigata era cresciuta e aveva raggiunto i 380 effettivi; alla Brigata avevamo dato il nome di un martire antifascista cesenate, Gastone Sozzi, un dirigente comunista condannato dal tribunale speciale e poi ucciso dai fascisti nel carcere di Perugia. Era cresciuto anche il Pci che in Romagna era il principale animatore della Resistenza. Anche Luciano si considerava un comunista e un giorno mi manifestò l’intenzione di iscriversi. Gli espressi soddisfazione e dissi che avrei subito provveduto. Quando l’indomani ne parlai a Zanelli, nome di battaglia Giovanni, segretario della federazione del Pci, questi mi chiese se lo ritenevo in grado di dirigere i sindacati dopo la Liberazione, di fare il segretario della Ccdl. Pensai ai compagni che svolgevano l’attività sindacale clandestina e dissi che rispetto a loro sarebbe stato il più capace, che aveva una forte personalità, che era un comunista di grande onestà e franchezza. Sapevo, perché ne avevamo parlato in Segreteria, che il CLN era d’accordo perché il Sindaco di Forlì fosse designato dal Pci nella persona di Franco Agosto, il prefetto dal PdA nella persona dell’avv. Bruno Angeletti, il segretario della Ccdl dal Psi che però non aveva una persona adeguata. Il segretario del Psi era un commerciante, che riteneva già troppo gravoso il suo lavoro. Giovanni pensava di risolvere il problema confidando sulla disponibilità di Luciano di fare il socialista e mi chiese perciò di concordare un incontro con Boris. Della proposta di Giovanni, Luciano non sembrava entusiasta, ma lascio la parola a quanto scritto da Luciano stesso: «Io gli risposi che ero di idee comuniste, anche se non iscritto. Giovanni insisté: ero laureato, partigiano ed ex ufficiale antifascista, non rigidamente operaio e poi le differenze fra Pci e Psi erano minime, dopo la Liberazione le forze socialiste si sarebbero unificate». Luciano era combattuto, ci teneva ad affermare le sue idee comuniste. Io ero perché lui accettasse, anche perché non vedevo tra i comunisti che conoscevo (militavo nel Pci da quasi tre anni) uno più capace di lui ad assolvere quell’incarico e gli dissi: «L’importante è essere comunisti dentro e soprattutto per un comunista è importante quello che si fa nell’interesse dei lavoratori». Come finì lo dico con le parole di Luciano: «Accettai dunque e ciò ebbe un valore decisivo per la mia vita» […] Un uomo è libero se sa essere se stesso Questa è la lezione, l’insegnamento che ci ha lasciato Luciano. Egli è stato un uomo libero e coraggioso, nemico del conformismo, un uomo franco nel propugnare le proprie convinzioni e nel rispettare quelle degli altri quando erano espresse democraticamente. Credo di non sbagliare se dico che Luciano nella Resistenza ha imparato a fare le scelte giuste, ad essere guida di se stesso, ad essere molto esigente con se stesso, che non ha avuto paura del cambiamento, ma è stato sempre un combattente per realizzarlo. Così ha saputo dare un grande significato alla sua vita e diventare guida per grandi masse di lavoratori”.

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