Non
è privo di un suo particolare significato il fatto che, dopo la liberazione, al
più alto posto di direzione sindacale nel nostro Paese sia stato assunto, e poi
sia stato mantenuto fino alla morte, Giuseppe Di Vittorio, il quale riuniva in
sé due qualità, quella di provenire direttamente e immediatamente dalla classe
contadina e l’altra di essere un meridionale. Lo studioso del processo
organizzativo delle classi lavoratrici nel nostro Paese, il quale leghi, com’è
naturale, tale fatto alle successive tappe evolutive maturatesi dal 1944 a
oggi, non può non cogliere la coerente relazione che corre tra il fatto stesso
e le due esigenze spontaneamente sorte dalle esperienze del passato e dagli
insegnamenti scaturitine, due esigenze che facevano entrambe capo a una volontà
unitaria, che il duro ventennio fascista aveva determinato e temprato,
decisamente tesa a non ricadere negli antichi errori, così pesantemente
scontati, e ad aprire una via nuova al movimento sindacale. La prima esigenza
sorgeva dall’avvertita necessità di imprimere al movimento quel compiuto
carattere nazionale, la cui deficienza aveva tanto nociuto nel periodo
prefascista, e che, data la composizione sociale del Mezzogiorno, non poteva
raggiungersi se non ponendo in primo piano la stretta unione dei lavoratori del
Nord e dei contadini del Sud, in una costante solidarietà nei mezzi e nei fini
che la prefascista organizzazione sindacale non aveva mai seriamente attuata e
che qualche volta aveva addirittura impedito. La seconda esigenza, legata
strettamente alla prima, sorgeva dall’altra non meno avvertita necessità di
assumere il movimento contadino del Mezzogiorno come una delle leve più potenti
ai fini della maggiore efficienza dell’organizzazione sindacale nazionale e
insieme del profondo rinnovamento economico e sociale di tutto il Paese. Non è
dubbio che la eccezionale personalità di Giuseppe Di Vittorio rispondeva
pienamente alla duplice esigenza, e se altra dimostrazione non vi fosse, è
valsa a darne la prova irrefutabile l’unanime solidarietà nel compianto per la
sua fine, essendosi nel suo nome ancora una volta affermata, e in modo solenne,
la raggiunta unità della classe lavoratrice italiana. Constatare ciò significa
rilevare quanto cammino abbia percorso il movimento sindacale nel Mezzogiorno
sotto la direzione di Giuseppe Di Vittorio, non solo nel senso della attiva
partecipazione ad esso delle masse contadine, ma in quello, più importante, del
contributo decisivo che tale fatto ha conferito alla definitiva assunzione
della questione meridionale come questione di portata e di importanza
nazionali. Il contadino meridionale trovò in Di Vittorio, meridionale e
contadino, il simbolo vivente e operante dei suoi dolori e delle sue speranze,
del suo passato e del suo avvenire, la guida sapiente e fidata nelle sue lotte,
il sicuro interprete delle sue aspirazioni e delle sue rivendicazioni. Nessun
uomo politico ha avuto mai nel Mezzogiorno una più vasta e più affettuosa
popolarità; e la cosa è tanto più notevole in quanto l’attività esplicata da Di
Vittorio tra la gente meridionale rifuggì sempre da ogni facile e sonora
demagogia, intesa com’era a formare una coscienza sindacale che si ponesse
contro ogni forma di miracolismo e di improvvisa e impulsiva impazienza: in che
appunto si concretano gli ostacoli e le difficoltà che l’opera dell’organizzatore
sindacale deve superare sempre che si diriga a masse disorganizzate. Nell’affrontare
un così arduo compito Giuseppe Di Vittorio portò, oltre che la passione del
bene propria di un’anima superiore qual era la sua, la consapevolezza precisa
di un intelletto in cui operavano, con perfetta sincronia, prudenza e
ardimento, audacia e senso del limite, nulla concedendo all’irragionevole
entusiasmo e all’incauta improvvisazione. E appunto queste alte qualità
occorrevano al supremo dirigente dell’organizzazione sindacale per fare del
movimento contadino meridionale il fatto nuovo che esso costituisce nella vita
del Mezzogiorno e che è indubbiamente al centro delle forze e delle attività
cui è affidato il compito del profondo rinnovamento sociale, politico ed
economico delle terre meridionali. Quanta parte della sua complessa opera abbia
dedicato a tale compito Giuseppe Di Vittorio, nei sindacati, sulla stampa, in
Parlamento, sulle piazze, non è facile dire nemmeno riassumendo. Intanto si può
affermare che non c’è stata agitazione in questi ultimi dodici anni, non
dibattito, non polemica, non proposta di legge nel campo della questione
meridionale e dei molteplici problemi a essa legati, in cui la personalità di
Giuseppe Di Vittorio non abbia assunto un rilievo di primaria importanza. Chi
non ha presente, per non ricordare altro, la molteplice attività da lui
spiegata sia come dirigente sindacale, sia come agitatore, sia come
parlamentare, per la riforma fondiaria e per quella dei patti agrari, che
costituiscono i due aspetti fondamentali più caratteristici della questione
meridionale? Mi è nella memoria il superbo discorso che egli fece nel convegno
per la presentazione del programma di attività e di opere che la Confederazione
generale del lavoro nel 1950 proponeva per il rinnovamento economico e sociale
della nazione, e di esso specialmente la parte che egli dedicò ai problemi
meridionali e soprattutto alla riforma agraria, che è la premessa necessaria
della rinascita del Mezzogiorno. Poche volte mi è occorso di veder congiunta
tanta competenza tecnica, un così acuto senso di responsabilità, una visione
così concreta di fatti e di uomini, con un così fervido e spontaneo sentimento
di umanità, con una commozione cosi sincera e perciò stesso tanto comunicativa!
Occorrerà pure, al più presto, riunire e pubblicare tutti gli scritti e i
discorsi che Giuseppe Di Vittorio dedicò al Mezzogiorno nel corso della lunga
lotta in cui egli impegnò tutte le sue energie. Non solo ciò sarà appreso come
un degno omaggio alla Sua memoria, ma costituirà una fonte inesauribile di
insegnamenti e una guida sicura nella battaglia che continua e al cui esito
vittorioso è legato l’avvenire del Paese.
Perché l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano, siano esse streghe o siano esse libere
Ve le ricordate “le due Simone”? Simona Pari e Simona Torretta, rapite nel 2004 a Baghdad nella sede della Ong per cui lavoravano e rientrate a Fiumicino dopo cinque mesi e mezzo di prigionia. “Oche gulive” le definì un giornale (volutamente con l’articolo indeterminativo e la g minuscola!) commentando il desiderio delle due ragazze di ritornare alla loro vita normale precedente il rapimento. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze italiane rapite in Siria più o meno dieci anni dopo, ve le ricordate? Ve le ricordate ancora Carola Rackete, Greta Thunberg, Laura Boldrini, da ultima Giovanna Botteri? Cosa hanno in comune queste donne? Probabilmente tante cose, probabilmente nulla, ma una è talmente evidente da non poter non essere notata: sono state tutte, senza pietà e senza rispetto, lapidate sul web. Perché verrebbe da chiedersi? E la risposta che sono riuscita a darmi è solamente una: perché sono donne indipendenti, nel senso più vero ed intimo della parola. An
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