La morte di Di Vittorio mi ha colpito
profondamente. Io non da ieri facevo conto e stima del grande sindacalista. L’ho
conosciuto da vicino a Ferrara, dove io ero andato agli spettacoli tasseschi
che si davano nel Palazzo dei Diamanti, e capitai a sedermi accanto a lui. Mi
piacque subito: trovai in lui un uomo semplice, dalle idee chiare, sofferte e
sviluppate nella lotta, per il pane quotidiano prima (pane quotidiano non è una
metafora) e poi nelle varie lotte di politico e di sindacalista. Lo sentii poi
parlare, sempre a Ferrara, a migliaia di lavoratori, senza alcuna particolare
enfasi, alieno dalle forme demagogiche, da lavoratore che difende gli interessi
dei lavoratori. Pensai ad Alberto da Giussano, che nella grande possa della sua
persona e della voce come tuon di maggio, arringava, o meglio conversava con le
folle che lo ascoltavano avidamente. Ma cacciai come molesta questa
reminiscenza carducciana, e mi ricordai piuttosto Di Vittorio, lettore dei
«Promessi sposi». Sapevo che il libro manzoniano gli era stato regalato una
volta dal cappellano della prigione di Lucera. Era quel libro che per lui ci voleva
e che vi sentiva uno scrittore che denunciava soprusi di signorotti, fame e
patimenti di popolo. Tutte le volte che nella sua lunga e travagliata vita Di
Vittorio si è trovato in carcere, Di Vittorio ha letto e riletto i «Promessi
sposi» ; una prova come un grande scrittore cristiano, quale il Manzoni, possa
nutrire la linfa di un rivoluzionario. Della sua vita mi ha colpito il ricordo
di quell’articolo da lui stampato in un giornale di Ferrara, in occasione delle
chiamate alle armi della classe 1892, sua e mia. Era un appello ai soldati a
rifiutarsi di sparare sui lavoratori: il Di Vittorio non ha aspettato il 1919 o
il 1921 per schierarsi tutto dalla parte della classe lavoratrice! Per codesta
sua eresia ebbe uno scontro tempestoso con il colonnello, ma chiese di partire
per il fronte, dove sull’altipiano dei Sette Comuni, alle pendici del monte
Zelio (caro e triste nella memoria per tutti i combattenti che, volenti o
nolenti ci siamo trovati a combattere in quella zona), il Di Vittorio combatte
valorosamente e fu colpito da un proiettile per fortuna senza gravi
conseguenze. Ma nonostante questa sua dedizione, sospettato per un uomo di
implacabile fede democratica, fu trasferito alla Maddalena, dove c’era una
compagnia di soldati puniti che coltivavano le terre senza alcuna
remunerazione. Poi sentimmo parlare di Giuseppe Di Vittorio combattente
antifascista. Vi sono particolari della sua esistenza, che ci chiamano ancora
oggi un sorriso di compiacimento ed una lacrima negli occhi. Ci sia permesso
intanto di esprimere la nostra ammirazione per questa tempra di lottatore, che
non perdeva mai la calma e l’equilibrio e dava delle risposte non furbescamente
evasive, ma tali che i suoi inquisitori o avversari dovevano arrendersi alla
sua logica.
Da «l’Unità» del 4 novembre
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