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Articoli da «Rassegna Sindacale» nel trigesimo della morte di Di Vittorio_ Riccardo Lombardi

Solo chi aveva conosciuto Di Vittorio prima dell’emigrazione poté misurare lo sviluppo che le qualità umane, politiche e culturali accumulate durante la giovinezza avevano subito attraverso le lotte e i cimenti della lunga cospirazione. Avevo conosciuto Di Vittorio nell’inverno del 1926, immediatamente dopo la promulgazione delle leggi eccezionali, allorché, colpito da mandato di cattura era nascosto nella casa di mia madre attendendo il suo turno per l’espatrio clandestino; e in quel tempo portava impresse e direi parlanti in tutto il suo essere le caratteristiche dell’agitatore di razza. Chi lo rivide nel 1945 non tardò ad accorgersi che l’agitatore sindacalista era divenuto un grande capo politico. Colpiva siffatta trasformazione, anche negli aspetti esteriori (ma quanto significativi!) della parlata e nell’aspetto fisico che andava assumendo quella composta espressione di forza cosciente e controllata che mi richiamava suggestivamente la figura di Pietro nell’affresco di Masaccio all’Annunciata.
Questa sua maturata qualità di capo politico, trovò nella grande campagna di preparazione, di impostazione e di sviluppo del “Piano del lavoro” l’occasione e, insieme,  l’ambiente più congeniale per offrire la massima misura di sé. A chi ritorna col pensiero a quegli anni, del resto recenti, ma arricchito dall’esperienza di tutto ciò che in fatto di organica politica, economica e di tentativi di pianificazione, si è discusso, fatto e soprattutto non fatto in Italia, può, oggi, apparire ovvio l’impegno assunto allora dalla CGIL sotto l’impulso preminente di Di Vittorio; cioè quella via può apparire come dettata naturalmente dalle cose e perciò non necessitante alcuna lotta politica di fondo. A tal punto taluni fondamentali criteri di politica economica democratica sono divenuti oramai perfino banali.
Ma così non era attorno agli anni ’49-‘5O: sicché il lancio del Piano del lavoro, come politica capace di impegnare l’intera classe operaia, i contadini e gli strati sfruttati dei ceti medi, rappresentò una vera e propria scelta politica, la conclusione di una difficile e a lungo incerta lotta politica. Chi ne volesse la prova, potrà trovarla nel fatto che quei problemi di indirizzo e di metodo senza la cui soluzione preventiva la politica del Piano di lavoro sarebbe stata letteralmente impossibile, sono stati a lungo, e sono in parte ancora, all’ordine del giorno di altri movimenti operai nazionali nei paesi capitalistici, e ne costituiscono ancora in vario modo la problematica.
Ai tanti che ancor oggi vedono in quella politica un mero espediente sia pur geniale per “forzare” una situazione di chiusura per la classe operaia quale si era verificata dopo il 1948 (e sarebbe già non piccolo merito), o come una trovata trasformistica per rovesciare un corso politico scarsamente redditizio, si può offrire, come tema di riflessione la difficile lotta che la CGIL con alla testa Di Vittorio sostenne non solo prima ma anche dopo l’adozione della politica del Piano, per giustificarla e raccomandarla innanzi a tutto il movimento operaio internazionale. Basta rileggere il dibattito intervenuto al congresso sindacale mondiale di Vienna per ricavarne la misura e l’importanza della scelta fatta dal movimento sindacale unitario italiano. Basta ancora confrontare i dibattiti intervenuti nei due ultimi congressi nazionali della CGT francese (e specialmente nel penultimo) con quelli dei congressi confederali italiani (Napoli e Roma) sul problema, appunto, della adozione da parte dei sindacati operai di una linea di politica economica accanto alla tradizionale politica rivendicativa, perché appaia in tutta la sua chiarezza la posizione di avanguardia, e in certo momento addirittura di punta, assunta dalla CGIL.
Non credo di indulgere alla commozione, che suscita in me il ricordo di una collaborazione intensa nel momento forse più felice e produttivo della travagliata vita di Di Vittorio, se affermo che senza di lui quella scelta e quella politica non sarebbero state possibili. Certamente esse risultarono da un concorso di contributi assai diversi e distanti: ma colui che rese organici quei contributi, che li ridusse alla ragion comune del movimento operaio, che li impose ai riluttanti e ai diffidenti gettando generosamente sul piatto della bilancia il peso di una ineguagliata autorità morale, prima ancora che politica, fu Giuseppe Di Vittorio.
Quando nel marzo 1950, al convegno sul Piano del lavoro, nel teatro romano delle Quattro Fontane, nel pieno della guerra fredda e della offensiva padronale e governativa contro il movimento operaio, si videro economisti, studiosi, sindacalisti, parlamentari, ministri in carica di ogni parte venire a “fare i conti” col movimento sindacale unitario e con la CGIL, apparve chiara a tutti la straordinaria fecondità di quella iniziativa. Fu un trionfo, anche personale, per Di Vittorio, per la tenace volontà, per la straordinaria capacità di lavoro che erano riuscite a mettere l’organizzazione unitaria dei lavoratori all’avanguardia dello sviluppo democratico nazionale.
Il nome di Di Vittorio perciò resta legato intimamente a quello che fu forse l’esperienza più produttiva e il momento più felice del movimento sindacale italiano, esperienza per altro ancora assai lontana dal potersi dire esaurita. Anche qui perciò Di Vittorio ci ha lasciato una eredità, non solo di memorie, che tocca a noi non disperdere e far fruttificare.

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