Di Giuseppe Di Vittorio conservavo da giovane
l’immagine un poco convenzionale del sindacalista rivoluzionario. Qualche
contorno più preciso alla sua fisionomia poteva darmelo la sua origine:
pugliese anch’egli come Salvemini, con quella forza istintiva e generosa che
trascinava noi dietro il nostro maestro di Molfetta, con quella dirittura
d’animo di sorgiva così direttamente popolana. Ed era di Cerignola. Sapevo cosa
era Cerignola: quelle stamberghe lercie sulla strada fangosa, quella tradizione
millenaria di fatiche e di stenti stampata sui visi della povera gente. Un
lungo grido, una invocazione disperata alla giustizia sorge da quegli stracci,
da quella miseria, da quella condanna all’ignoranza. Chi sorge a difenderla
reca incisa in fondo all’anima la più antica, la più saggia, e la più amara,
parola d’ordine della società umana: justitìa jundamentum regni.
Questo Di
Vittorio un poco mitologico lo conobbi più da vicino dopo la Liberazione,
quando le vicende politiche m’obbligarono a trattare con la neonata
organizzazione sindacale dei problemi di vita e di lavoro del 1945. Anno di
angustie materiali terribili. La povera gente domandava da mangiare e da
coprirsi, specialmente nel Mezzogiorno. Un Governo moderno e democratico
avrebbe dovuto considerare il sindacato, più che come collaboratore, come
strumento e compartecipe, anche naturalmente delle responsabilità.
“O non abbiamo promesso di inserire direttamente nello
Stato le classi lavorataci, di farle partecipi del proprio governo e delle
responsabilità nazionali?” domandavo io agli oppositori interni della esarchia.
Non si andò molti avanti. La Liberazione era già dietro le spalle, e l’ondata
di ritorno ci stava già soverchiando. E poi trattai con Di Vittorio sforzandomi
di conciliare come mediatore la grande vertenza nazionale subito risorta. I
miei sforzi fallirono soprattutto per l’irrigidimento dell’ultima ora della
parte padronale, che preferì accettare l’anno dopo il lodo da De Gasperi. Presi
allora la misura di quell’uomo: preparato e serio, bene informato di tutti gli
aspetti di una vertenza economicamente e sindacalmente così complessa; l’avrei
preferito più cedevole: ma dovetti riconoscere che era giustamente fermo; caldo
e persuasivo, quando sentiva che doveva trattare da uomo a uomo.
Mi disse allora e mi ripetè altra volta: “E’ difficile
che voi possiate rendervi conto quale sforzo io ed i compagni della CGIL
dobbiamo fare per frenare, moderare le impazienze istintive della base,
contenere le agitazioni e dare ad esse obiettivi sensati”.
Le vicende
politiche e personali mi tennero qualche anno lontano. Seguivo con interesse lo
sforzo della Confederazione per elaborare un piano nazionale di riforme.
Sentivo il danno della nostra vita politica a spaccature così nette, di
dialettica e superamento così difficile, facendo io qualche rimprovero a Di
Vittorio ed ai suoi compagni di non cercare più ampiamente collegamenti, e
possibilità di controllo e confronto con i nostri ambienti di studio. Quando il
sindacato oltrepassa il piano delle rivendicazioni salariali ha bisogno di
appoggi non solo numerici.
Ma il rimprovero maggiore, di mancanza di coraggio, lo dovevo rivolgere a me stesso ed ai nostri ambienti. A noi sarebbe spettato il dovere dell’avvicinamento cordiale per una collaborazione sul piano dello studio. E questo rimorso mi rimane ora che Di Vittorio se n’e andato. Egli era fortemente impegnato, sinceramente impegnato, senza riserve mentali, nello sforzo che un Turati moderno avrebbe detto di “rifare l’Italia”.
Ma il rimprovero maggiore, di mancanza di coraggio, lo dovevo rivolgere a me stesso ed ai nostri ambienti. A noi sarebbe spettato il dovere dell’avvicinamento cordiale per una collaborazione sul piano dello studio. E questo rimorso mi rimane ora che Di Vittorio se n’e andato. Egli era fortemente impegnato, sinceramente impegnato, senza riserve mentali, nello sforzo che un Turati moderno avrebbe detto di “rifare l’Italia”.
Era ancora il sogno generoso del bracciante di
Cerignola. Quale forza viene a mancare al proletariato italiano! Quando il
popolo di Roma seguiva il suo carro funebre sentivo ben chiara qual’era la
sorgente di quell’affetto, di quell’attaccamento, di quella ovazione spontanea.
Era la ricchezza generosa dell’anima mai inaridita, la prima fonte della
fiducia dei lavoratori nel combattente unicamente e sempre devoto alla loro
liberazione, ed alla loro ascensione. La sua forza e la sua autorità non erano
mai declinate perché non si era mai oscurato il suo vigore morale.
Ed è questa
la lezione prima che egli lascia anche a noi, che ne serbiamo cara ed
affettuosa l’immagine nella memoria del cuore; che egli lascia ai lavoratori:
il socialismo vince se la sua spina dorsale è data dalle verità superiori ed
umane delle quali deve esser portatore.
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