Vi
prego di aiutarmi nell’affrontare questa non facile prova, non facile anche se
decisa e resa pubblica da lungo tempo, con una scelta di ragione necessaria e
giusta. Ma ci sono dei frangenti della nostra vita nei quali il dominio della
ragione rischia di cedere al tumulto dei sentimenti. Non c’è in me, dopo
quarantadue anni di lavoro nella Cgil e sedici nella funzione di segretario
generale, nessuna amarezza né rimpianto, se non la nostalgia dei giovani anni,
il ricordo struggente di tanti compagni con i quali ho condiviso le ansie, le
vittorie, le delusioni, le alterne vicende della Cgil, organizzazione di
lavoratori che sono uomini che vivono in una società stimolante ma mobile e
inquieta come la nostra. Cari compagni, non voglio ingannarvi neppure ora.
Quello che non doveva essere e non è un trauma per l’organizzazione, è
certamente una scossa per me, al momento del distacco. La Cgil mi ha fatto come
sono, mi ha dato le ragioni più profonde e grandi di vita e di lotta, mi ha
dato una cultura, un’etica, una educazione sociale e politica divenute parte
inscindibile della mia persona. E di questa scuola straordinaria devo
ringraziare voi tutti, e quelli che prima di voi ho avuto la ventura di avere
come compagni e come dirigenti: Di Vittorio, Santi, Novella e tanti altri.
Ci
sono dei momenti, e questo è per me uno di questi, nei quali si è indotti a
ripensare al proprio passato. Sono ritornato con la memoria a quel lontano 9
novembre 1944, quando, armi alla mano, ci impadronimmo a Forlì della sede dei
sindacati fascisti e inopinatamente io venivo nominato segretario della Camera
del lavoro. C’erano in me ancora confuse speranze di una radicale e drastica
resa dei conti con i responsabili del fascismo e della guerra, la convinzione
che quella fase unitaria sarebbe presto terminata e avremmo potuto, d’un colpo
solo, realizzare quei valori di giustizia, di libertà, di pace tanto agognati e
discussi nelle lunghe giornate di vita partigiana. Ma poi venne la grande
scoperta del sindacato e dei suoi protagonisti, Di Vittorio, Grandi, Lizzadri,
nella gelida sala del Museo di Napoli in quel febbraio del 1945.
A
poco a poco, all’erronea illusione di un salto repentino impossibile e
pericoloso, si andava sostituendo nella mia coscienza la convinzione che la
costruzione di una società davvero diversa e più giusta non può essere per noi
che una conquista collettiva, faticosa, fatta di tappe successive da superare
giorno per giorno insieme con la gente e che ogni modello di città del sole è
oltre che utopistico, parziale e transeunte perché anche i lavoratori e gli
uomini cambiano di mano in mano che procedono sulla via della loro
emancipazione. Ciò che resta intatto sono quei valori essenziali di giustizia,
di libertà, di progresso sociale, culturale, umano che il mondo del lavoro
porta con sé.
Ma
perché questi valori si affermino c’è una prima condizione da rispettare: l’unità,
sottoposta a tante e difficili prove, eppure sempre indispensabile per chi non
si appaghi di affidare fatalisticamente al sole dell’avvenire, di un avvenire
che di per sé non verrà mai, le proprie speranze di cambiamento.
Non
può dimenticare, chi lo ha vissuto e magari da principio lo considerò come una
liberazione da troppi condizionamenti, il periodo duro della divisione tra la
fine degli anni quaranta e il decennio successivo che vide l’isolamento della
Cgil, gli eccidi di lavoratori, le rappresaglie padronali, i più di cinquanta
quadri nostri, dirigenti coraggiosi dei contadini del feudo, trucidati dai
fucili a canne mozze o dai nodi scorsoi dei killer della mafia. È di quel tempo
l’attività di un certo signor Luigi Cavallo, ve lo ricordate, voi vecchi?
Allora coccolato e blandito, da tanti potenti del denaro e della politica, oggi
in carcere, estradato in Italia perché complice di Sindona, provocatore,
organizzatore di sindacati gialli e persecutore dei sindacalisti della Cgil e
dei militanti di sinistra specie alla Fiat. Erano gli anni dei reparti confino,
dei ricatti nelle elezioni delle commissioni interne che videro restringersi la
nostra forza organizzata e, contemporaneamente, videro l’impavida tenuta del
quadro dirigente, di tanti militanti di base perseguitati ma non piegati.
Quelle
prove crudeli, dolorose mi fecero riflettere sul significato profondo di concetti
come l’unità, la coerenza, il coraggio di riconoscere i propri errori per
correggerli, il rifiuto delle due verità. Fu quello il tempo in cui si
diffusero sentimenti profondi di solidarietà, si cementarono molte amicizie e
alcune, anche, si spezzarono.
Poi,
nella seconda metà degli anni cinquanta, operammo la svolta delle nostre
politiche, anche allora combattuti tra un futuro che già si imponeva e un
passato che era dentro di noi, si riannodarono con grande stento alcuni fili di
unità, fu cacciato il governo Tambroni appoggiato dai fascisti, venne il Natale
unitario del ‘60 degli elettromeccanici in piazza del Duomo a Milano. Ciò che è
avvenuto dopo, dal ‘68 in poi, è esperienza vissuta o nota a molti di voi, con
le sue luci con le sue ombre, con quelle avanzate e quegli arretramenti che
segnano sempre nella storia anche la vicenda sindacale. La Cgil esagererebbe
con l’autocritica? C’è forse chi riconosce i propri errori davanti al mondo, e
c’è chi li riconosce davanti all’Altissimo.
Negli
ultimi anni si sono addensate le esperienze forse più inquietanti delle quali
non abbiamo fatto certamente mistero.
Il
tessuto unitario si è venuto progressivamente lacerando, si è appannato fin
quasi a dissolversi, quella strategia di cambiamento che rende credibile il
ruolo politico del sindacato, è diventata più faticosa e problematica la
conquista del consenso. Il nostro congresso, per un impegno univoco dei gruppi
dirigenti largamente confermato dall’apporto dei lavoratori, pone ora le
premesse per il superamento degli errori e delle difficoltà di questo recente
passato.
Siamo
solo all’inizio di una salita forse lunga e faticosa, in cima alla quale, però,
si ritorna «a riveder le stelle». Le stelle del successo, della partecipazione
e della fiducia della grande massa dei lavoratori. Sta dietro di noi la fase
più ingrata, la discesa che qualcuno temeva irreversibile, definitiva. Questa
considerazione mi conforta, nel momento in cui vi lascio!
Compagni,
non abbiate paura delle novità, non rifiutate la realtà perché vi presenta
incognite nuove e non corrisponde a schemi tradizionali, comodi ma ingannevoli,
non rinunciate alle vostre idee almeno finché non ne riconoscete altre
migliori! E in quel momento ditelo! Perché un dirigente sindacale è un uomo
come gli altri e se in quel momento gli altri lo riconosceranno capiranno anche
gli errori. So bene che questo metodo comporta anche il rischio di pagare dei
prezzi, ma non c’è prezzo più alto che la verità: ma in una grande
organizzazione, pluralistica e complessa nella ideologia e nella condizione
culturale e sociale dei suoi stessi aderenti, il libero confronto, il coraggio
delle proprie posizioni sono lievito indispensabile, un contributo al
miglioramento delle politiche, alla ricerca collettiva della strada giusta. Io
stesso nei momenti di scelta ho fatto molto discutere, anche in preparazione di
questo congresso, e di ciò mi si è talvolta mosso rimprovero. Ma il mondo del
lavoro non è un corpo separato, esso è parte essenziale della società, una
forza popolare che esprime volontà, alimenta speranze, plasma coscienze. E
tanto più il nostro disegno diventa ambizioso e il cambiare riguarda noi e l’intera
società, tanto più dobbiamo sentire su di noi incombere l’obbligo di essere
chiari con noi e con gli altri, anche per conquistare altri ceti e forze alle
nostre idee, ai nostri programmi. Innalzare intorno a noi, in nome di una
asettica purezza, una sorta di cordone sanitario significherebbe condannare
alla sterilità ogni sforzo di cambiamento, e una vera politica alternativa di
sviluppo che garantisca lavoro ai giovani e alla gente del Sud presuppone
cambiamenti così profondi nell’uso delle risorse e nel governo del paese da
esigere, con un libero confronto, una vasta ricerca di convergenze e di sforzi.
L’intero
movimento sindacale è impegnato nel mutamento di questa società. Lo diciamo
talvolta con parole diverse, partendo da punti di vista distinti, formati a
ideologie anche contrastanti; ma i lavoratori chiedono a tutti i sindacati
lavoro sicuro, salario dignitoso, rispetto dei loro diritti, difesa della
libertà e della pace. Contare di più nella direzione di questo paese. Dai
discorsi di Franco Marini e di Giorgio Benvenuto abbiamo sentito che le
risposte, nella sostanza, non sono diverse. Lo sapevamo, del resto, e ciò deve
incoraggiare tutti a riprendere senza esitazioni la strada dell’unità, ben
sapendo, cari compagni, che ogni convergenza sarebbe effimera se non trovasse
corrispondenza e impulso nei luoghi di lavoro nella diretta partecipazione dei
lavoratori. E uscendo da questa sala ognuno di voi si deve sentire missionario
di questa causa.
Sappiamo
che il progresso dell’unità sindacale ha nei rapporti unitari dentro la Cgil
una condizione inderogabile. Su questo tema si apre di quando in quando una
discussione fra di noi e ciò è avvenuto anche recentemente. Voi sapete che l’impegno
per consolidare la nostra unità interna, per il rispetto di un pluralismo che
arricchisce la nostra convivenza è stato l’imperativo che ha informato gran
parte della mia vita. E voglio dirvi - né questa affermazione vi sembri troppo
estranea alla sede e al momento - che davvero non mi sono mai sentito tanto
militante di partito, tanto comunista in pace con la mia coscienza di
comunista, come quando ho difeso le ragioni dell’autonomia della Cgil e ho
lavorato testardamente per la sua unità. Perché in un mondo del lavoro
dilaniato dalle divisioni, dai contrasti, non c’è speranza di successo né per
il sindacato né per alcuna forza politica che lotti per il progresso, per la
giustizia, per l’emancipazione dei lavoratori, se rimane questa divisione, se
si approfondisce questo solco.
E
adesso mi sia permesso, senza accusarmi di illecita ingerenza negli affari
interni di altre organizzazioni, in questo discorso che non è un «articulum
mortis» come si diceva, di dire ancora una parola ai numerosi delegati
stranieri, tanti dei quali io conosco di persona e che mi sono amici. Con molti
di voi, compagni, ho avuto occasioni recenti o lontane di dialogo, di
convergenze, di confronto, sempre stimolante anche nel dissenso. Ebbene! Io
credo che il momento sindacale internazionale dovrebbe ricercare terreni e
iniziative comuni di fronte alle innovazioni che entrano impetuosamente nei
processi produttivi e che hanno ovunque in pratica le stesse analoghe caratteristiche.
Il sindacato è nato in Europa, un secolo fa, spesso prima che vedessero la luce
i partiti socialisti, e fu costruito, come abbiamo detto, su un modello
industriale. Io non credo che dopo un secolo di tanta esperienza e conquiste la
nostra capacità di analisi, la nostra creatività si siano così esauriti da
renderci impotenti ad affrontare la realtà di oggi, di condannarci a una
difensiva senza prospettive. Mi rivolgo prima di tutto a noi italiani, ma mi
rivolgo anche alle grandi organizzazioni sindacali qui presenti che hanno avuto
un ruolo così importante nella storia sindacale e nazionale dei rispettivi
paesi, perché si mettano in comune esperienze e idee, per affrontare più forti
e uniti la sfida del futuro. È forse matura, oggi, anche la prospettiva di
maggiore autonomia, parola che fino a qualche tempo fa suonava quasi
incomprensibile in molti sindacati. Noi siamo sempre più convinti che senza
autonomia del sindacato non solo si secca una sorgente di democrazia, ma ci si
priva di una forza decisiva di progresso. I sindacati obbligatori, unici per
legge, i sindacati subordinati ai governi o dipendenti dai partiti, possono
essere magari efficaci e potenti difensori di un regime politico, ma il loro
annullarsi nel sistema di potere li trasforma in rami dell’amministrazione e ne
spegne il lievito progressista.
In
molti paesi del mondo, industrializzati o sottosviluppati, a regime sociale
assai diverso l’uno dall’altro, la tendenza a subordinare i sindacati è forte e
laddove i lavoratori rivendicano libertà d’organizzazione, là facilmente il
potere ricorre alla repressione. Bisogna convincersi che una società moderna è
inconcepibile senza un sindacato libero e che un sindacato senza autonomia non
è un sindacato vero anche se continua a chiamarsi così.
A
questa concezione del sindacato come movimento di lavoratori che esprime le
loro esigenze sforzandosi di collocarle nell’ambito del progresso del paese
combattendo spinte corporative, settoriali, individualistiche, ogni
confederazione ha dato in Italia il suo contributo con le accentuazioni e
particolarità che derivano dalle distinte radici di ciascuno. Ma questa
esperienza ci ha fatto tutti noi - uomini del sindacato - un po’ diversi da chi
ha trascorso con altrettanta passione e responsabilità la propria vita nel
lavoro di partito o in altri campi di attività politiche. Un po’ diversi, ho
detto, non estranei o contrapposti. Chi come me è stato per tanto tempo,
contemporaneamente e con la stessa sincerità e partecipazione, militante
sindacale e di partito e per l’esperienza compiuta nel sindacato, ha
gradualmente acquisito qualche peso anche nel partito, conosce l’assillo dei
casi di coscienza, le angosce di dover rispondere a richiami ugualmente potenti
che provengono dall’una e dall’altra parte, quando su scelte importanti, le
posizioni del sindacato e del partito differiscono tra loro. Ripensate alle
stagioni scorse, compagni, e ritroverete con noi alcuni momenti di travaglio.
Passare attraverso queste prove forse matura, certamente costa. Io non so se le
mie scelte sono sempre state giuste; anzi, sono certo che a volte ho anche
sbagliato. Ma anche i miei errori - vorrei che tutti lo credessero - sono stati
l’approdo di uno sforzo interiore, di una ricerca di verità che ho compiuto nel
profondo della mia coscienza. Perché, cari compagni, dopo aver analizzato
collegialmente ogni aspetto di una situazione, dopo aver sinceramente cercato
di interpretare la volontà dei lavoratori col massimo scrupolo democratico, ci
sono dei momenti cruciali nei quali sei solo, e da solo, in ultima analisi,
devi decidere la sua posizione, devi scegliere la tua strada, caricandoti delle
responsabilità che ciò comporta.
Un
uomo vero è una persona, ha un solo pensiero, una sola coscienza e non può
atteggiarsi diversamente a seconda che affronti un problema in una sede o nell’altra.
Può darsi che chi non milita in un partito sia meno impegnato e talvolta meno
oppresso da problemi di questa natura. Ma io non lo credo! Pierre Carniti, che
ha lasciato la Cisl qualche mese fa e che saluto con affetto fraterno, pur non
militando in nessun partito, non soggiaceva certo prendendo le sue posizioni, a
una impostazione unilaterale, senza problemi delle questioni che affrontava.
Anche altri imperativi, morali e politici, si presentavano a lui, così
pressanti e forti da non poterli ignorare nel momento delle scelte, da farlo
soffrire anche se le prendeva con tanta fermezza e durezza. E la consapevolezza
di un tale comune assillo, se non ha cancellato le diversità anche grandi che
talvolta ci hanno diviso, ha alimentato in me stima profonda per la sua
sincerità, per la sua assoluta onestà intellettuale e morale.
Un
vero grande sindacato come il nostro ha sempre assolto in tutta la sua storia a
una funzione nobile di educazione politica e classista, ma anche morale delle
masse. Abbiamo sempre cercato di parlare ai lavoratori come a degli uomini, di
parlare al loro cervello e al loro cuore, alla loro coscienza. In questo modo
il sindacato è diventato scuola di giustizia, ma anche di democrazia, di
libertà, ha contribuito a elevare le virtù civili dei lavoratori e del popolo.
Il
gruppo dirigente che uscirà da questo congresso, in tanta parte rinnovato, è
cresciuto a questa scuola.
I
compagni, valorosi e capaci, che lo compongono meritano la vostra fiducia e
sapranno lavorare insieme, utilizzando gli apporti originali di ognuno,
collaborando tutti al rinnovamento e al successo dell’organizzazione.
A
essi, al compagno Pizzinato, a Del Turco, a Trentin, a tutti, va il mio augurio
fraterno, anzi la mia certezza di un successo del loro lavoro.
Vi
saluto, compagni congressisti, lavoratori della Cgil.
Accomiatandomi
da voi, mi accingo a dare al mio partito il modesto contributo di cui sarò
capace.
Può
darsi che ciò serva a qualche cosa. Può darsi che l’esperienza compiuta nel
lavoro sindacale, che gli ammaestramenti che mi avete impartito siano di
qualche utilità per affrontare i grandi problemi di rinnovamento che oggi
stanno di fronte anche alle forze politiche progressiste, e quindi al mio
partito, perché anche nei partiti il confronto delle idee, libero, come si sta
facendo nel mio, è necessario per compiere scelte giuste.
Al
compagno Del Turco, che anche a nome vostro è stato così prodigo di
apprezzamenti verso di me, e a voi tutti che mi dimostrate oggi come sempre
tanto affetto, non riesco a rispondere altro che grazie!
Grazie
per avermi offerto una vita piena, una causa grande, una ragione giusta di
impegno e di lotta.
Grazie
anche a voi, Marini e Benvenuto, per le parole buone, troppo buone che mi avete
rivolto. Grazie di cuore, amici miei. Voi sapete che ci unisce e ci unirà
sempre un rapporto di fiducia, un amore profondo che nessuna vicenda umana
potrà spezzare.
Perché
ci sono delle radici che non si possono sradicare. Voi, per me, siete quella
radice!
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