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Nelle Valli di Filo nessuno la dimentica



di Renata Viganò (da «L’Unità» del 18 maggio 1950)



C’è qualcuno che mi dice, guardando il ritratto della Maria: «Però ha un’aria triste. Forse se lo sentiva che doveva morire». Un discorso che mi fa rabbia, e rispondo come devo rispondere. Perché doveva sentirsi di morire, la Maria che aveva trentaquattro anni e stava bene di salute? Io la conoscevo, aveva sì, un viso bruno e triste, ma era così di temperamento, bruna taciturna e tranquilla, e la tristezza le veniva dalla morte del marito, di cui non si poteva consolare.
Quando io dico: «Vado al mio paese» m’intendo di dire Filo d’Argenta, anzi il Mulino di Filo, un villaggio ai margini della bonifica. Ma non è il mio paese, fino al gennaio del ‘45 non sapevo neanche che esistesse, però ci sono stata da partigiana gli ultimi mesi della Resistenza e poi in prima linea quando ci fu l’offensiva; là fui nell’ora della Liberazione, là ci ho quasi lasciato la pelle, e ho tremato per paura che ci lasciassero la pelle mio marito ed il mio bambino. Ho vissuto i primi giorni belli dopo la fine della guerra, credevo proprio che la guerra fosse finita (e non era vero) e quello è diventato il mio paese.
Mulino di Filo, frazione di Argenta, è il paese di Maria Margotti.
Quando seppi che a Molinella era stata assassinata con una raffica di mitra una donna, una bracciante di Mulino di Filo che si chiamava Maria Margotti - tutte le donne del Mulino le conosco - subito non ho capito chi era; là non ci si chiama con il nome e cognome, tutti hanno un soprannome, quasi un nome di battaglia per la vita, come noi da partigiani per la lotta clandestina; Maria Margotti per me era la Maria del figlio di Battista, e soltanto quando ho visto il suo viso nei giornali, l’ho riconosciuta.
L’ho riconosciuta ricordando la sua casa, una casa povera in un gruppetto di altre, al principio della Fossetta, e ci passavo per andare al villaggio, sulla strada maestra, dove c’è l’osteria, il tabaccaio, la cooperativa di consumo, qualche altra bottega, poche case e nient’altro: il Mulino di Filo è una piccola frazione.
Quando passavo, la Maria mi salutava, ci salutavamo tutte, io e le donne del villaggio; eravamo state insieme sotto le bombe, eravamo state insieme a dormire fra la paglia nelle stalle, ad ascoltare «Pippo» che non era mai stanco di tirare giù bombe e spezzoni; poi eravamo state insieme ai funerali dei caduti, sui camion per i primi comizi sotto il riflesso delle bandiere rosse, sotto il cielo placato e chiaro dopo la liberazione, senza più le lame dei riflettori che segnavano il fronte di Alfonsine, né i bengala che un aereo alto e silenzioso ci mandava negli occhi all’improvviso, né il ronzio dei caccia bombardieri che poi sganciavano senza neppure sapere che cosa volessero colpire.
La Maria mi salutava dalla sua porta, vicina a quella di Renato il calzolaio che mi fece le prime scarpe dopo che avevo camminato per tanto tempo nel fango con un paio di calosce rotte, in faccia a quella della Gigina che mi lavò l’unico vestito, e della Iolanda che curai di una bruciatura. Mi salutava col suo viso quasi infantile sotto i capelli lisci, sempre vestita di nero delle vedove. Ci salutavamo con tutte le donne, quando dalla Val Bruciata venivo al Mulino per la Fossetta.
Quel giorno che andò a Molinella si mise un fazzoletto bianco per il sole. Morì così, col fazzoletto bianco da mondina.
Eppure la più felice è stata lei, che non si è accorta di morire. Con una pallottola che rompe gli organi necessari per vivere non ci si accorge di morire. E’ come un urto che fa cadere in terra. Tanto, in terra, ci si butta per istinto quando si sente sparare. Solo che dopo, gli altri si rialzarono, e Maria Margotti rimase lì con la faccia contro l’argine. La più felice è stata lei, che non ha visto, quel carabiniere - e adesso sappiamo il suo nome - non ha visto quel figlio di povera madre che per pochi soldi dei suoi padroni ha sparato a freddo contro una madre come sua madre. Quello doveva essere dall’altra parte, un ragazzo come gli altri, con la bicicletta fracassata e la testa piena di parole amare, a difendere le cose sue, le cose dei poveri, e invece era sulla strada in motocicletta, con una divisa frusta, il numero come un forzato, e dava retta ai padroni spaventati che gli dicevano : «Spara, spara senza pietà».
I compagni dissero, dopo la raffica: «Su alzati, Maria. Andiamo a casa». Lei rimase immobile, distesa, ed essi la rivoltarono, e le videro il sangue, che vuol dire morte; e alla morte non credevano.
Ci credettero dopo, quando fra le loro braccia Maria restò ferma e sorda, e le voci spaurite cominciarono a chiamare forte, inutilmente : «Maria, Maria». E ci credettero più tardi, quando lei fu su una tavola di legno tra i fiori nell’ospedale di Molinella, e le sue bambine, venute da Filo, sbalordite e tremanti, si buttarono su quella tavola e chiamarono: «Mamma, mamma» - e non rispose più nessuno.
Adesso, ed è già passato del tempo, Maria Margotti è morta, è morta come poteva morire qualsiasi altra delle donne del Mulino di Filo, perché sono tutte braccianti e compagne, e allo sciopero tutte aderiscono, è morta come poteva aderire la Terzilla e l’Elsa e la Gigina e la Paola, come poteva morire la Tisa che era vicina a lei quando il carabiniere sparò, e che ha avuto un figlio di diciotto anni fucilato per rappresaglia dai tedeschi insieme ad altri nove, la terribile legge tedesca del «dieci per uno». Tutte potevano morire le donne del Mulino; è stata scelta la Maria Margotti, vedova con due bambine, la Pina e la Berta, vedova del figlio di Battista, ed è diventata un simbolo, una bandiera, la prima bracciante caduta nello sciopero bracciantile della primavera del 1949, un nome, una figura che esce dai nostri piccoli ricordi di compagni per entrare nel rosso elenco dei caduti per l’umanità, per la gioia, il lavoro, il pane dell’umanità.
Al Mulino di Filo, negli ultimi mesi della Resistenza i tedeschi non scantonavano dalla strada maestra. Giù verso la Fossetta, verso il gruppo di case dove abitava Maria Margotti, i tedeschi non venivano. Avevano paura dei partigiani. Non parliamo dei fascisti che erano spariti, fuggiti, dopo quell’ultima impresa di aver dato ai tedeschi i dieci nomi per la rappresaglia. In ogni casa dalla Fossetta in poi, fin nella bonifica allagata, c’erano partigiani, staffette, infermiere, quelle che facevano il pane, quelle che facevano le calze e le maglie. Praticamente la zona era controllata dai partigiani.
E anche la Maria Margotti era fra quelle donne, lavorava per i partigiani, faceva qualche cosa per la Resistenza. Ebbene mi piacerebbe sapere dove era in quei giorni il carabiniere che le ha sparato e l’ha ammazzata puntando verso di lei, verso tutto il popolo inerme la canna del mitra bucato come un flauto. Può darsi che fosse a Salò, o se non a Salò in una succursale della repubblichetta, pronto agli ordini di quel branco di pazzi criminali che erano i suoi padroni, e se non c’era lui, c’era qualcuno di quelli che adesso lo comandano; e c’era poi un altro branco di padroni, allora nascosto in cantina, che sono poi saltati fuori quando non c’era più pericolo a governare in nome di Cristo. Questi ultimi, un tempo, hanno fatto la voce grossa all’estero, si sono vestiti coi colori della Resistenza, si sono fatti proprio grandi di quello che avevano compiuto tutte le piccole Maria Margotti d’Italia, e i fratelli, i figli, i mariti di tutte le Marie Margotti. E adesso dicono a quelli che allora erano o nella repubblica di Salò o nascosti con loro in cantina: «Sparate, sparate, questa gente ormai non ci serve più. Anzi, ci annoia, ed è pericolosa con quel suo domandare lavoro e pane».
Mi piacerebbe anche sapere che cosa ne pensano quei signori ufficiali aviatori americani - e ce ne sono stati tanti - che ebbero l’aereo colpito nel cielo del Mulino di Filo dalla contraerea tedesca della Bastia. Venivano giù col paracadute, e noi, donne, compresa la Maria Margotti, correvamo nella loro direzione con tute e giacche e scarpe; erano ben felici di levarsi le belle divise di cuoio, panno e pelo, e indossare i nostri poveri indumenti contadini, e trovare i partigiani che gli facevano passare la linea e raggiungere le loro formazioni, evitando la prigionia tedesca, la fame di Mauthausen ecc. Mi piacerebbe sapere come avrebbero fatto a salvarsi, se non ci fossero state le Marie Margotti e i partigiani, se tutti in Italia fossero stati come la brigata nera di Salò o come i padroni di oggi allora nascosti in cantina. Ma i signori ufficiali anglo-americani fuggiti dai campi di concentramento italiani e alloggiati allora intorno ai nostri fuochi, scaldati nei loro letti, non si ricordano più di niente, mettono tutto in conto gli episodi di guerra, belle storie eroiche da narrare nelle halls di Londra e di Washington; e applaudono al piano Marshall, al piano Erp, al Patto Atlantico, a tutti i piani e patti che oggi i padroni italiani accettano con gratitudine in nome di Cristo per armare mani di italiani e comandarli di sparare, di sparare senza pietà, contro la Maria Margotti del Mulino di Filo, contro i braccianti di Brescia, di Persiceto, di Crevalcore, di Malborghetto, contro tutte le vere donne ed i veri uomini d’Italia.


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