I sessantacinque anni
di vita di Giuseppe Di Vittorio - stroncato il 3 novembre a Lecco da un
secondo, mortale infarto cardiaco - si identificano con la dura lotta, dalle
alterne vicende, delle classi operaie italiane. Perciò commemorando lui si
rievoca una pagina, e tra le più significative e intense, della democrazia
italiana, che, per conquistare sempre più solidità e stabilità, dev’essere non
solo uno schema di precetti giuridici ma anche complesso di conquiste sociali.
Se Di Vittorio puntò prevalentemente sul secondo aspetto, era chiaro che al
fondo della sua concezione restava sempre viva la fedeltà all’indefettibile
aspetto della democrazia politica; come, tra le tante manifestazioni del suo
personalissimo temperamento, stanno a dimostrare la sua ansiosa aspirazione
alla ricomposizione della unità sindacale e la sua tendenza a portare le
rivendicazioni dei lavoratori da lui rappresentati su un piano sul quale, anche
in via contingente, esse potessero coincidere con le analoghe aspirazioni dei
lavoratori aderenti ad altre correnti sindacali.
Per questo, in
naturale, spontanea e significativa convergenza, il suo nome è stato
ricollegato alle memorie di Bruno Buozzi e di Achille Grandi, anch’essi caduti
nella trincea ideale: il primo barbaramente trucidato dalla ferocia nazista, il
secondo teso alla realizzazione delle aspirazioni operaie fino all’ultima
estrema energia del suo corpo, dissoluto da un male atroce.
Il sentire che i tre
nomi, legati alla storia del movimento sindacale italiano dell’ultimo
cinquantennio, siano rimasti uniti nel rimpianto e nel ricordo della comune,
nobilissima battaglia è certamente il momento del più alto compiacimento per lo
spirito di Giuseppe Di Vittorio. L’autentica provenienza dalle classi
lavoratrici - e dallo strato più umile e diseredato di esse (ricordiamo il
contadino orfano e povero, strappato alle pur elementari prime nozioni della
cultura: distacco dalla scuola che, come rivelerà più tardi, fu una grande
amarezza, la quale, lungi dal lievitare acida ritorsione contro la cultura e
gli studi, alimenterà per tutta la vita la sua sete di conoscere e di
progredire nel campo della cultura) - conferiva alla sua personalità una
impronta di così aperta schiettezza, di così vivo calore umano da delineare uno
stampo che non sarà facile imitare o riprodurre. Anche nei momenti più acuti
della lotta politica, nelle piazze come in Parlamento, la potenza dei
sentimenti o l’impeto delle impostazioni politiche, nel toccare il vertice, si
scioglievano in un atteggiamento umano che si poteva registrare nello stesso
tono della voce e soprattutto nella larga, sorridente apertura del volto e nella
invocazione commossa ad una giustizia che egli voleva promanasse non tanto
dalla violenza quanto dalle sotterranee radici dello sviluppo della società.
E - per ricordare
soprattutto il parlamentare, qui in quest’aula - quante volte (e furono tante!)
si alzò a parlare, anche nei momenti più drammatici egli seppe contenere
l’impeto della sua convinzione in un rispetto costante - costante perché
profondamente sentito - per il prestigio del Parlamento e per l’autorità del
Presidente. Di questo aspetto della sua personalità soprattutto occorre che il
Presidente renda con riconoscenza testimonianza alla sua memoria; perché,
quando la convivenza in questa Assemblea di opposte correnti politiche è
garantita dalla libertà di tutti di esprimere il proprio pensiero e dal
rispetto a chi è chiamato a dirigere i lavori, allora il Parlamento si presenta
come l’autentico strumento di ogni progresso civile e sociale.
Egli, anche per questo
aspetto, va segnalato a noi tutti perché ne possiamo continuare la tradizione,
ed ai più accesi o incontinenti perché possano correggersi, come un modello di
grande coscienza dell’insostituibile funzione del nostro istituto. La sua
stessa oratoria, nella quale - e basterà confrontare i suoi primi esperimenti
di eloquenza parlamentare con i discorsi delle due successive legislature -
seppe, in forza del suo forte ingegno e della sua prodigiosa capacità di
perfezionamento, raggiungere una maturità piena, resta come una testimonianza
del suo attaccamento all’istituto parlamentare; perché egli, nella
documentazione dettagliata talora fino al parossismo, nella lunga estensione
del discorso, nell’appello alla convergenza rivolto ad altre correnti, ubbidiva
ad un fine: quello di convincere, e comunque di testimoniare la buona fede
della sua ispirazione.
Il suo nome resterà
legato alla storia delle rivendicazioni delle masse operaie e resterà legato
alla storia della nostra Assemblea. E poiché la vita di un uomo dedicata
interamente alla lotta per un ideale - e nell’ultimo anno la sua vita fu un
quasi consapevole olocausto alla causa - sarà sempre motivo di esaltazione per
i compagni di fede e di rispetto per gli avversari, noi possiamo,
nell’universale rimpianto, comporre la sua memoria nel sacrario dei più alti
valori morali del nostro paese.
Discorso pronunciato
alla Camera dei deputati nella seduta del 12 novembre 1957
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