Per avere una idea della vita di Giuseppe Di Vittorio,
quale bracciante pugliese e della sua opera di difensore dei braccianti nei
primi anni della sua attività sindacale e politica, occorre riportarsi alle
condizioni di vita dei lavoratori giornalieri delle campagne di Puglia
all’inizio di questo secolo.
L’agricoltura pugliese fin dagli ultimi
decenni del 1800 aveva raggiunto un certo grado di sviluppo con la diffusione
della coltura della vite, che si era estesa man mano dalla Puglia meridionale a
quella settentrionale raggiungendo i bordi del vasto Tavoliere della
Capitanata. Ccrignola divenne un centro vitivinicolo di grande importanza:
migliaia di ettari di terra del suo esteso agro venivano coltivati a vigneto e
la conduzione era quella di tipo diretto, padronale. In conseguenza a
Cerignola, come in molti altri centri pugliesi, viveva e si agitava un
bracciantato foltissimo: misero ed illetterato. Era semplicemente penosa la
vita dei braccianti e delle loro famiglie all’epoca in cui Di Vittorio, a sette
anni e mezzo, dovette lasciare la scuola per diventare anch’egli bracciante. Il
bracciante non aveva alcuna sicurezza dell’immediato domani: a sera si
presentava nella piazza del paese per attendere che un padrone, o l’incaricato
del padrone, giungesse per assumerlo. Quando si aveva la fortuna di venire
assunti il lavoro non durava più di qualche giorno e spesso un giorno solo.
Alla “piazza” la contrattazione del salario era “libera”: il padrone proponeva
un prezzo per la giornata lavorativa ed il bracciante rispondeva con un altro
prezzo, dipendeva dalla urgenza del lavoro e dalla quantità di lavoratori sul
mercato se la contrattazione avvantaggiava l’una o l’altra parte.
Di solito la manodopera disoccupata era
sovrabbondante e, persino nel maggio, quando i lavori nel vigneto sono
pressanti, o in giugno, alla mietitura, il padrone finiva coll’aver ragione,
poiché, anche in quei mesi di lavoro agricolo intenso, il padronato chiamava, a
Cerignola frotte di braccianti “forestieri” per impedire che i salari
migliorassero. La paga giornaliera di un bracciante pugliese non superava la
media di 4 “carlini” (una lira e settanta centesimi). La robustezza fisica ed
una certa specializzazione consentiva a pochi lavoratori di effettuare al
massimo 150 o 200 giornate lavorative annue. Assegni familiari, assistenze,
previdenze son cose venute dopo; allora erano assolutamente sconosciute.
Da questo rapido quadro si può avere una
idea del tenore di vita dei braccianti agli inizi del secolo in Puglia ed a
Cerignola. Di Vittorio era nato in una famiglia di braccianti; suo padre - ottimo
lavoratore - era divenuto “curatolo”, una specie di bracciante specializzato e
di fiducia, in una azienda seminativo-pastorale. Peppino ebbe
la sventura di perdere il genitore quando
frequentava appena la seconda classe elementare. All’indomani della morte del
padre, in casa sua non c’era un pezzo di pane; e il ragazzo dovette darsi al
lavoro per aiutare
la famiglia composta da lui stesso, dalla
madre e da una sorella. Se difficile era la vita del bracciante adulto, ancora
peggiore era la condizione dei ragazzi adibiti ai lavori della masseria; per
soli pochi centesimi di lira al giorno, si riducevano a condizione di schiavi
bambini che avrebbero avuto ancora bisogno delle affettuose cure della madre. I
ragazzi venivano sfruttati e maltrattati anche più degli uomini e, non di rado,
bastonati da padroni e “curatoli” disumani, per costringerli a lavorare di più.
Eseguivano lavori estenuanti dal primo mattino sin dopo il tramonto per
mangiare a sera una scodella “d’acquasale” mal condita e dormire per terra,
vestiti, su un sacco pieno di paglia a poca distanza dalle code dei cavalli.
Peppino, ha fatto questa vita.
Molti si sono domandati come mai Di
Vittorio, dopo le mille vicissitudini della sua vita, non avesse dimenticato di
essere stato un bracciante pugliese. Si potrà dimenticare di aver esercitato
una qualsiasi attività nella propria vita, ma non si potrebbe dimenticare mai
di avere vissuto da bracciante pugliese ai primi del secolo. A Di Vittorio la
vita di bracciante non rimase solo impressa nella memoria, insieme a tanti
altri ricordi di tante altre esperienze; se il nostro Peppino per tutta la sua
vita è stato così profondamente ricco di umanità, v’è da essere sicuri che
tanto si deve al contatto diretto che egli ebbe colle sofferenze di questi lavoratori
negli anni della sua prima giovinezza. Di Vittorio non era però di quelli che
soffrono e tacciono. Di Vittorio capì giovanissimo che i lavoratori potevano
liberarsi dallo stato di abbrutimento in cui erano costretti. In quel tempo, il
movimento socialista nelle Puglie si andava affermando; in molte località - ad
opera di elementi della piccola borghesia e dei lavoratori più progrediti - si
costituivano le sezioni socialiste; nei centri bracciantili più importanti
della regione si formavano le prime “Leghe Contadine” o “Leghe di Resistenza”
ove i braccianti, pur attraverso le molteplici difficoltà che padroni e
governanti ponevano, andavano ad iscriversi. I tempi erano duri. Giovanni
Giolitti, ministro agli Interni e Presidente del Consiglio, mentre nel Nord del
Paese praticava una politica che, in un certo senso, favoriva lo sviluppo delle
organizzazioni operaie, nel Sud dava ordini ai prefetti di impedire con ogni
mezzo il rafforzamento delle organizzazioni. Gli agrari poi delle “Leghe” non
volevano neppure sentir parlare. Essi rifiutavano di aver contatti con i
dirigenti della Lega non ammettendo per principio che “i cafoni” potessero
trovarsi con loro, attorno ad uno stesso tavolo per trattare.
A Cerignola nel maggio del 1905 vi fu il
primo sciopero bracciantile in certo qual modo organizzato. All’epoca gli
scioperi dei braccianti pugliesi non potevano avere esito positivo se non si
formavano picchetti di scioperanti che impedivano l’azione di crumiraggio
operato specie dai “forestieri” o da elementi provocatori del luogo, comprati
dal padrone. Lo sciopero procedeva compatto e con una certa compostezza, ma vi
fu l’intervento della forza pubblica. Nel pomeriggio, senza che vi fosse stato
un qualunque incidente di rilievo, la polizia e i soldati fecero fuoco sugli
scioperanti. Molti lavoratori caddero morti sul selciato, altri vennero feriti.
Di Vittorio, tredicenne, aveva partecipato a quel primo suo sciopero col
massimo entusiasmo. Si trovò sul luogo dell’eccidio e per un puro caso non
venne colpito. Vide attorno a sé tanti caduti e fra loro il suo più caro amico.
L’eccidio del 1905 influì non poco
sull’animo del piccolo Di Vittorio. Da quel giorno Peppino prese a frequentare
i locali della Lega. Qui prese i primi contatti con i problemi del lavoro. Era
un ragazzo studioso ed appena aveva avuto una possibilità non mancò di
acquistarsi qualche libro da leggere durante la mezz’ora di sosta, per il
pasto, durante il lavoro nella masseria. Lì, alla Lega, trovava qualche cosa di
più, trovava l’opuscolo di propaganda socialista, trovava il giornale che
difendeva gli interessi della sua categoria. Veniva pubblicato in quel tempo un
giornalino da un centesimo la copia “Il Seme” ed egli ne diventò il più assiduo
lettore; il miglior commentatore del buonsenso di “Salinzucca” o delle
scempiaggini di “Masticabrodo”. Il giovanissimo bracciante si distinse tanto
dagli altri che nell’anniversario dell’eccidio gli venne affidato il compito di
commemorare il ragazzo, suo amico, caduto. Un anno dopo, nel 1907, nasce la
Federazione Nazionale Giovanile Socialista, ed a Cerignola Di Vittorio
costituisce il Circolo Giovanile. Il Circolo di Cerignola ebbe uno sviluppo
diverso dagli altri sorti nei diversi centri pugliesi.
Il Circolo Giovanile di Cerignola divenne
ben presto il centro politico e sindacale della cittadina. Non vi fu a
Cerignola lotta operaia che non avesse alla direzione effettiva, il Circolo
Giovanile diretto da Di Vittorio. Peppino, sin dall’anno prima, per frequentare
la Lega non potette più recarsi al lavoro nelle masserie ove il bracciante non
dispone di alcuna giornata libera; non era possibile del resto raggiungere il
paese dopo la giornata di lavoro in masseria: si smetteva di lavorare molto
tardi e bisognava essere sul luogo di lavoro di buon mattino; la strada era
lunga e mancavano mezzi di locomozione. Per queste ragioni Di Vittorio lavorava
nelle vigne o negli uliveti donde poteva rientrare in paese tutte le sere;
v’era però l’inconveniente di non “trovare” sempre la giornata di lavoro e
rimanere per alcuni giorni disoccupato; v’era il continuo rischio di far
mancare il pane in casa. In compenso lavorando nelle vigne, ora in un luogo ora
in un altro, si aveva la possibilità di aver contatto con più braccianti e
svolgere opera di propaganda.
La madre di Peppino era una santa donna.
Sebbene inesperta ed analfabeta aveva compreso che il suo figliolo aveva
qualità non comuni; ma, di fronte al più elementare dei bisogni qualche volta
sarà stata costretta a richiamare Peppino alla necessità della famiglia per
certe spese che il figlio faceva nell’acquisto del giornaletto o di qualche
libro, spese che poteva ritenere superflue, o per la perdita di qualche
giornata di lavoro che Di Vittorio utilizzava per le necessità della
organizzazione. Di Vittorio doveva sapersi ben destreggiare: da una parte la
famigliuola da mantenere, dall’altra i compiti di direzione di una
organizzazione che contava già su alcune centinaia di iscritti e che di giorno
in giorno aumentava le sue attività. Oltre ad essere stato, sin dalla adolescenza,
un ottimo organizzatore, Di Vittorio fu soprattutto un educatore per i suoi
compagni di lavoro.
In quell’epoca che stiamo ricordando si
era diffusa in molti centri pugliesi la “malavita”. Molti giovani braccianti e
di altre categorie lavoratrici vi si erano affiliati. Per taluni di loro
l’appartenere alla “malavita” era in primo luogo la maniera di esprimere la
propria ribellione contro lo stato di cose esistenti nel paese. Ma, nella
sostanza, “l’associazione” serviva i partiti borghesi e, più in generale, gli
agrari, che pagavano i suoi capi per avere a disposizione i “crumiri” ed i
“mazzieri”.
Cerignola era allora uno dei centri in
cui questa cancrena sociale aveva avuto maggior diffusione. Di Vittorio
comprese subito il danno che tale piaga arrecava ai lavoratori ed alla società
e la combatte con efficacia tra i suoi coetanei ed anche tra i più avanzati in
età. Prima di Di Vittorio, al suo paese ed in altri comuni pugliesi v’erano
stati scomposti e pericolosi movimenti di lavoratori: masse di braccianti
disoccupati, nella stragrande maggioranza analfabeti, spinti dalla fame si
agitavano senza un obiettivo preciso, senza alcun orientamento, senza guida,
ora contro questi, or contro l’altro e chi venivano solitamente presi di mira
erano i “forestieri” o il comune. Le agitazioni finivano di solito
coll’intervento della forza pubblica, con eccidi di lavoratori: poi, venivano
gli arresti e le condanne a chi aveva compiuto atti di gran lunga meno
riprovevoli di quello commesso da chi aveva ordinato di sparare contro la
povera gente. Di Vittorio si assunse il compito di educare alla disciplina
queste masse, di formare una organizzazione e mantenerla in vita: e vi riuscì,
svolgendo questo lavoro di educazione, di formazione e di organizzazione tra i
suoi compagni, durante la giornata lavorativa. Il problema dei “forestieri” era
molto serio. Dalle provincie più meridionali delle Puglie giungevano nel
Tavoliere migliaia e migliaia di braccianti ancor più miseri di quelli del
posto. Arrivavano al tempo in cui vi era un po’ di lavoro e quando si poteva
chiedere la maggiorazione di una decina di centesimi sul salario della giornata
lavorativa. I “forestieri” per non rimanere disoccupati si offrivano a prezzo
più basso dei lavoratori locali: di qui le zuffe tra lavoratori, a colpi di
coltello e di roncola, con conseguenze troppe volte letali. Occorreva
convincere i compagni di lavoro di Cerignola che anche quelli che giungevano
dagli altri comuni erano poveri lavoratori, i quali non trovavano lavoro nel
proprio comune e si avventuravano in altri paesi per procacciare un tozzo di
pane per le proprie famiglie. I “forestieri” erano anch’essi vittime dello
stesso sistema politico-sociale ed il mezzo per risolvere la contesa vi era.
Questo mezzo era la organizzazione degli uni e degli altri nei propri paesi di
residenza; queste organizzazioni avrebbero potuto disciplinare il lavoro,
imponendo ai padroni una coltivazione più razionale della terra.
A quest’opera educativa nessuno poteva
riuscire meglio di Di Vittorio, il quale seppur giovanissimo veniva da tutti
ascoltato, seguito, rispettato. Dopo l’imponente sciopero del 1907, che da
Cerignola si propagò ad altri comuni vicini e che si concluse col pieno
successo dei lavoratori, il nome di Di Vittorio valicava i confini del suo paese
natale. Peppino non poteva più continuare nel suo mestiere di bracciante; la
sua presenza in paese era diventata una necessità nell’interesse dei
lavoratori. Il suo Circolo Socialista era divenuto tutt’uno colla “Lega dei
contadini”, e l’organizzazione dei braccianti di Cerignola contava ormai
migliaia e migliaia di aderenti: quel piccolo centro agricolo divenne il perno
di tutto il movimento bracciantile pugliese.
Che cosa rappresenta dunque Di Vittorio
per il bracciante di Cerignola, per quelli della sua Puglia, per quelli
dell’Italia intiera? Per essi Di Vittorio è stato uno di loro: nato in uno dei
tuguri da loro abitati, ha sofferto, come loro, la fame e l’ingiustizia, e poi
li ha educati, organizzati, diretti nella lotta per migliorare le proprie condizioni
di vita. I braccianti pugliesi sono fieri di aver espresso un uomo come
Giuseppe Di Vittorio. Dire che essi sono addolorati per la sua perdita è dire
ben poco. Ma i suoi ricordi ed i suoi insegnamenti non si cancelleranno mai
dalla loro memoria.
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