Di Vittorio va al sindacalismo per un
imperioso bisogno di giustizia: egli si sente interprete delle aspirazioni dei
suoi compagni di lavoro e sente soprattutto la umiltà della sua origine.
Bisogna cancellare gradualmente le differenze sociali. Di qui la sua
«intuizione»: non gesti di rivolta che a nulla approdano, ma un’azione ordinata
rivolta al fine che si è proposto: il miglioramento delle condizioni di vita
dei lavoratori. Egli riprende, così, l’impostazione dei vecchi sindacalisti,
provveduto com’era di mente e di cuore: bisogna unirsi; é l’unione, è la
solidarietà che da la forza. Bisogna convincere i compagni di lavoro: non
bisogna far nascere urti tra i lavoratori. Il «crumiro» ha sbagliato, bisogna
persuaderlo a non sbagliare più. C’è il lavoratore «forestiero» che arriva nel
paese per lavorare a condizioni più basse di quelle strappate localmente ai
«padroni»; ebbene, questo lavoratore non dev’essere trattato come un «nemico»,
è una vittima anche lui dell’ingiustizia sociale, bisogna spiegargli il danno
che la sua azione inconsapevolmente traditrice reca, bisogna persuaderlo a non
farlo più. Perciò Di Vittorio si presenta giovinetto alla ribalta sindacale con
questa vocazione che è insieme di apostolo e di organizzatore: dare una
coscienza ai lavoratori. Naturalmente questa non può essere per lui se non una
coscienza di classe: e questa si deve esprimere, dapprima, in una
consapevolezza di azione sindacale, e, successivamente, di azione politica. Per
questo Di Vittorio non è un «tecnico» del sindacalismo, anche se nei due
sindacalismi - quello prima del fascismo e quello del post-fascismo - imprimerà
l’inconfondibile segno della sua personalità. Lo stesso suo aderire alla
«frazione sindacalista» è una prova di chi è Di Vittorio: egli teme il pericolo
che, col «riformismo sindacale», si burocratizzi troppo l’organizzazione e si
formi tra i lavoratori una mentalità «corporativista», che spezza i legami
della solidarietà tra i lavoratori meglio trattati e quelli peggio trattati. Il
suo sentimento di «unità» sta qui: nel vivere lo spirito di solidarietà fra i
lavoratori, fra gli umili: è quel sentimento «cristiano» che Achille Grandi
sentirà in Di Vittorio. Più tardi, l’adesione a un partito marxista forse «razionalizzerà»
in Di Vittorio il concetto di unità, ma bastava un suo impeto oratorio per
riscoprire in lui quel sentimento «cristiano» che Achille Grandi gli
riconosceva. Certo, la tecnica «sindacale» dei primi accordi con gli agrari
pugliesi, che adopera Di Vittorio, è assai limitata. Ma ciò si deve alla prassi
sindacale del tempo e alle condizioni di ambiente in cui viveva, da secoli, il
bracciantato pugliese. Di Vittorio, però, anima questa «tecnica», non tanto con
il criterio di un’agitazione più o meno permanente, (che pure era tipico di
parecchi della «frazione sindacalista»), quanto con una visione più ampia: i
lavoratori di Cerignola devono sentirsi uniti a quelli dei finitimi comuni
pugliesi; bisogna non essere isolati rispetto agli altri, bisogna gradualizzare
l’azione, per non fare passi indietro. Egli, che non poteva essere un «riformista»,
era, tuttavia, un «gradualista», che, però, non ammetteva soste: voleva un’azione
continua, che si fondasse essenzialmente sul grado di consapevolezza dei
lavoratori. I lavoratori devono riconoscere nei benefici ottenuti non tanto una
«capacità dei capi» quanto un frutto della loro azione, ch’è resa cosciente e
consapevole dal legame di fratellanza, dal sentimento di solidarietà dei
lavoratori stessi. Ed egli sarà un «fratello maggiore»: quello che pagherà per
primo gli errori compiuti: egli che scriverà un giorno a me di aver «sì
sbagliato, ma tradito mai...». Eppure chi rilegge i cenni biografici che di lui
furon scritti, comprende ch’egli sbagliò perché non poteva astrarsi dai
sentimenti di una massa che rappresentava, e che se sbagliava l’errore era
provocato in lui da un istinto primordiale e incontenibile di risentimento per
la giustizia offesa. Ma egli, ch’era «agitatore di idee», aveva pur voluto e
saputo contenere tale istinto spontaneo e primordiale, e poteva, quindi,
affrontare sereno il giudizio «legale» dell’autorità costituita, e patire il
carcere, perché si sentiva forte nella sua coscienza di aver fatto ogni cosa
affinché le agitazioni a cui egli aveva dato contributo di «anima» non
andassero oltre il lecito. Sarà l’azione politica dei lavoratori che lo libererà
dal carcere, dove era costretto a seguito di un’agitazione sindacale. Avrà egli
avvertito, allora, la maggior forza che viene ai lavoratori dal «suffragio
universale» più che dallo «sciopero generale» ? Non saprei rispondere. Ma in un
certo senso è la smentita a Sorel quella ch’egli vive nell’esperienza del 1921
e che diventa per lui adesione alla tesi della conquista politica del potere ai
lavoratori. Anche così si prepara il suo successivo ingresso nel Partito comunista.
Quand’egli riprenderà nel 1943 i contatti «legali» col mondo del lavoro
italiano, si accorgerà dei mutati tempi, di quale traccia l’esperienza fascista
dell’ordinamento sindacale giuridico abbia lasciato tra i lavoratori, e come
essa abbia generalizzato un sistema contrattualistico, di cui si dovrà tener
conto, e che renderà difficile la ripresa del mondo del lavoro con le sole armi
del vecchio sindacalismo prefascista. L’accordo sulle Commissioni interne del
settembre ‘43 è soprattutto voluto da uomini del Nord: Buozzi, Roveda,
Quarello. Eppure Di Vittorio - il pugliese, il bracciante meridionale, il
sindacalista - comprenderà successivamente che il problema delle Commissioni interne
è fondamentale per la costruzione di un potere sindacale e di una democrazia
operaia che sa valersi anche della eredità contrattuale fascista, e porti i
lavoratori ad una attivizzazione diretta senza correre il pericolo di una nuova
burocratizzazione sindacale, e di una degenerazione «particolaristica» dell’azione
sindacale. Di Vittorio tenterà, dapprima, appena avvenuta la liberazione dell’intero
territorio nazionale, la strada delle grandi agitazioni e dei grandi accordi
nazionali, riuscendovi e contribuendo (del che non tutti gli industriali e i
borghesi gli daranno merito) a ristabilire un ordine: un ordine che avrebbe
dovuto consolidarsi attraverso l’attuazione della Costituzione repubblicana. Ma
alla formulazione di quell’articolo 39 egli non concordò con chi, come me,
voleva le rappresentanze unitarie elette da tutti i lavoratori, iscritti e non
ai sindacati, e non previde che, un giorno, sarebbe stato difficile provare il
numero degli iscritti, specie realizzandosi la fin d’allora prevista pluralità
sindacale. Questa mancata concordanza ha concorso a ritardare l’attuazione dell’articolo
39 e ha permesso, dopo la scissione del ‘48, l’indebolimento del potere
sindacale dei lavoratori. Man mano, s’era resa più evidente l’intenzione di molti
datori di lavoro di valersi della scissione e dell’anticomunismo per tentare i
sindacati concorrenti (CISL e UIL) sul piano delle trattative separate. Certo
che, date le origini e la «forma mentis» di Di Vittorio, rimane incomprensibile
la sua adesione alla contrattazione aziendale, che spezza l’unità di azione tra
i lavoratori delle aziende di uno stesso settore produttivo. La contrattazione
aziendale può essere più propria a chi, seguace della «Quadradegimo anno»,
vuole il passaggio dal contratto di salario al contratto di società. E’ stato
un ripiegamento, quello di Di Vittorio su tale questione, dovuto - ne sono
persuaso - a necessità più che a convinzione. E l’ultimo periodo della «vita sindacale»
Di Vittorio, a veder bene, si incentra nella sua attività parlamentare, membro
autorevole della Commissione del lavoro, non attorno ai tavoli delle trattative
sindacali. L’accordo nazionale sul «conglobamento» del giugno 1954 lo trova
tagliato fuori dalla conclusione finale. Gli industriali hanno avuto buon gioco
nell’allontanarlo. E da parte industriale si assecondò ormai ogni tentativo per
respingere l’«intervento giuridico» nelle questioni sindacali. Meglio, per ora,
regolare i lavoratori sul terreno dei rapporti di forza. La verità è che i
lavoratori sono oggi più temuti per la «scheda» che non per lo «sciopero»: di
qui il dramma finale del sindacalista Di Vittorio. Egli sentì di dover
ritornare ad essere, come agli inizi, apostolo di una coscienza fra i
lavoratori, per restituire con l’unione e con la solidarietà, una forza al
sindacato e fare del sindacato una scuola. Ricominciare da capo. Per questo
hanno particolare valore le ultime parole pronunciate a Lecco. Egli che aveva
pur contribuito coi grandi accordi sindacali del ‘45, ‘46, ‘47 a determinare
una forza sindacale, per un errore di valutazione, per un eccesso di fiducia in
una CGIL incrollabile, è ormai costretto ad agire più che sul terreno
specificamente sindacale su un terreno di competizioni elettoralistiche per le
votazioni delle Commissioni interne. Egli deve perciò proporsi di sostituire a
un diminuito «potere sindacale», un sufficiente «potere politico», e
ricominciare da capo, propagandando idee per rifare una coscienza sindacale ai
lavoratori, per ottenere che a una attivizzazione sindacale si accompagni una
attivizzazione politica. Di Vittorio è stato «sindacalista» per vocazione.
Aveva fiducia in sé e nei lavoratori. Accade però al sindacalista, come può
accadere al politico, di compiere l’errore di non proporzionare gli strumenti
secondo i tempi. Lo strumento che rende al massimo in un certo momento può
rendere molto meno successivamente, e allora il problema sta nel munirsi di
altri strumenti di scorta per far continuare la marcia al movimento sindacale e
operaio. La scomparsa di Di Vittorio coincide con una fase critica del
movimento sindacale italiano; e per un certo aspetto la aggrava. Ma la sua
lezione sta nel dirci che solo attraverso l’azione congiunta, anche se
distinta, degli strumenti sindacali e politici si potrà superare l’attuale fase
critica. L’esperienza vissuta da Di Vittorio lo può ben insegnare.
Perché l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano, siano esse streghe o siano esse libere
Ve le ricordate “le due Simone”? Simona Pari e Simona Torretta, rapite nel 2004 a Baghdad nella sede della Ong per cui lavoravano e rientrate a Fiumicino dopo cinque mesi e mezzo di prigionia. “Oche gulive” le definì un giornale (volutamente con l’articolo indeterminativo e la g minuscola!) commentando il desiderio delle due ragazze di ritornare alla loro vita normale precedente il rapimento. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze italiane rapite in Siria più o meno dieci anni dopo, ve le ricordate? Ve le ricordate ancora Carola Rackete, Greta Thunberg, Laura Boldrini, da ultima Giovanna Botteri? Cosa hanno in comune queste donne? Probabilmente tante cose, probabilmente nulla, ma una è talmente evidente da non poter non essere notata: sono state tutte, senza pietà e senza rispetto, lapidate sul web. Perché verrebbe da chiedersi? E la risposta che sono riuscita a darmi è solamente una: perché sono donne indipendenti, nel senso più vero ed intimo della parola. An
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