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Articoli da «Rassegna Sindacale» nel trigesimo della morte di Di Vittorio_ Giuseppe Rapelli

Di Vittorio va al sindacalismo per un imperioso bisogno di giustizia: egli si sente interprete delle aspirazioni dei suoi compagni di lavoro e sente soprattutto la umiltà della sua origine. Bisogna cancellare gradualmente le differenze sociali. Di qui la sua «intuizione»: non gesti di rivolta che a nulla approdano, ma un’azione ordinata rivolta al fine che si è proposto: il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Egli riprende, così, l’impostazione dei vecchi sindacalisti, provveduto com’era di mente e di cuore: bisogna unirsi; é l’unione, è la solidarietà che da la forza. Bisogna convincere i compagni di lavoro: non bisogna far nascere urti tra i lavoratori. Il «crumiro» ha sbagliato, bisogna persuaderlo a non sbagliare più. C’è il lavoratore «forestiero» che arriva nel paese per lavorare a condizioni più basse di quelle strappate localmente ai «padroni»; ebbene, questo lavoratore non dev’essere trattato come un «nemico», è una vittima anche lui dell’ingiustizia sociale, bisogna spiegargli il danno che la sua azione inconsapevolmente traditrice reca, bisogna persuaderlo a non farlo più. Perciò Di Vittorio si presenta giovinetto alla ribalta sindacale con questa vocazione che è insieme di apostolo e di organizzatore: dare una coscienza ai lavoratori. Naturalmente questa non può essere per lui se non una coscienza di classe: e questa si deve esprimere, dapprima, in una consapevolezza di azione sindacale, e, successivamente, di azione politica. Per questo Di Vittorio non è un «tecnico» del sindacalismo, anche se nei due sindacalismi - quello prima del fascismo e quello del post-fascismo - imprimerà l’inconfondibile segno della sua personalità. Lo stesso suo aderire alla «frazione sindacalista» è una prova di chi è Di Vittorio: egli teme il pericolo che, col «riformismo sindacale», si burocratizzi troppo l’organizzazione e si formi tra i lavoratori una mentalità «corporativista», che spezza i legami della solidarietà tra i lavoratori meglio trattati e quelli peggio trattati. Il suo sentimento di «unità» sta qui: nel vivere lo spirito di solidarietà fra i lavoratori, fra gli umili: è quel sentimento «cristiano» che Achille Grandi sentirà in Di Vittorio. Più tardi, l’adesione a un partito marxista forse «razionalizzerà» in Di Vittorio il concetto di unità, ma bastava un suo impeto oratorio per riscoprire in lui quel sentimento «cristiano» che Achille Grandi gli riconosceva. Certo, la tecnica «sindacale» dei primi accordi con gli agrari pugliesi, che adopera Di Vittorio, è assai limitata. Ma ciò si deve alla prassi sindacale del tempo e alle condizioni di ambiente in cui viveva, da secoli, il bracciantato pugliese. Di Vittorio, però, anima questa «tecnica», non tanto con il criterio di un’agitazione più o meno permanente, (che pure era tipico di parecchi della «frazione sindacalista»), quanto con una visione più ampia: i lavoratori di Cerignola devono sentirsi uniti a quelli dei finitimi comuni pugliesi; bisogna non essere isolati rispetto agli altri, bisogna gradualizzare l’azione, per non fare passi indietro. Egli, che non poteva essere un «riformista», era, tuttavia, un «gradualista», che, però, non ammetteva soste: voleva un’azione continua, che si fondasse essenzialmente sul grado di consapevolezza dei lavoratori. I lavoratori devono riconoscere nei benefici ottenuti non tanto una «capacità dei capi» quanto un frutto della loro azione, ch’è resa cosciente e consapevole dal legame di fratellanza, dal sentimento di solidarietà dei lavoratori stessi. Ed egli sarà un «fratello maggiore»: quello che pagherà per primo gli errori compiuti: egli che scriverà un giorno a me di aver «sì sbagliato, ma tradito mai...». Eppure chi rilegge i cenni biografici che di lui furon scritti, comprende ch’egli sbagliò perché non poteva astrarsi dai sentimenti di una massa che rappresentava, e che se sbagliava l’errore era provocato in lui da un istinto primordiale e incontenibile di risentimento per la giustizia offesa. Ma egli, ch’era «agitatore di idee», aveva pur voluto e saputo contenere tale istinto spontaneo e primordiale, e poteva, quindi, affrontare sereno il giudizio «legale» dell’autorità costituita, e patire il carcere, perché si sentiva forte nella sua coscienza di aver fatto ogni cosa affinché le agitazioni a cui egli aveva dato contributo di «anima» non andassero oltre il lecito. Sarà l’azione politica dei lavoratori che lo libererà dal carcere, dove era costretto a seguito di un’agitazione sindacale. Avrà egli avvertito, allora, la maggior forza che viene ai lavoratori dal «suffragio universale» più che dallo «sciopero generale» ? Non saprei rispondere. Ma in un certo senso è la smentita a Sorel quella ch’egli vive nell’esperienza del 1921 e che diventa per lui adesione alla tesi della conquista politica del potere ai lavoratori. Anche così si prepara il suo successivo ingresso nel Partito comunista. Quand’egli riprenderà nel 1943 i contatti «legali» col mondo del lavoro italiano, si accorgerà dei mutati tempi, di quale traccia l’esperienza fascista dell’ordinamento sindacale giuridico abbia lasciato tra i lavoratori, e come essa abbia generalizzato un sistema contrattualistico, di cui si dovrà tener conto, e che renderà difficile la ripresa del mondo del lavoro con le sole armi del vecchio sindacalismo prefascista. L’accordo sulle Commissioni interne del settembre ‘43 è soprattutto voluto da uomini del Nord: Buozzi, Roveda, Quarello. Eppure Di Vittorio - il pugliese, il bracciante meridionale, il sindacalista - comprenderà successivamente che il problema delle Commissioni interne è fondamentale per la costruzione di un potere sindacale e di una democrazia operaia che sa valersi anche della eredità contrattuale fascista, e porti i lavoratori ad una attivizzazione diretta senza correre il pericolo di una nuova burocratizzazione sindacale, e di una degenerazione «particolaristica» dell’azione sindacale. Di Vittorio tenterà, dapprima, appena avvenuta la liberazione dell’intero territorio nazionale, la strada delle grandi agitazioni e dei grandi accordi nazionali, riuscendovi e contribuendo (del che non tutti gli industriali e i borghesi gli daranno merito) a ristabilire un ordine: un ordine che avrebbe dovuto consolidarsi attraverso l’attuazione della Costituzione repubblicana. Ma alla formulazione di quell’articolo 39 egli non concordò con chi, come me, voleva le rappresentanze unitarie elette da tutti i lavoratori, iscritti e non ai sindacati, e non previde che, un giorno, sarebbe stato difficile provare il numero degli iscritti, specie realizzandosi la fin d’allora prevista pluralità sindacale. Questa mancata concordanza ha concorso a ritardare l’attuazione dell’articolo 39 e ha permesso, dopo la scissione del ‘48, l’indebolimento del potere sindacale dei lavoratori. Man mano, s’era resa più evidente l’intenzione di molti datori di lavoro di valersi della scissione e dell’anticomunismo per tentare i sindacati concorrenti (CISL e UIL) sul piano delle trattative separate. Certo che, date le origini e la «forma mentis» di Di Vittorio, rimane incomprensibile la sua adesione alla contrattazione aziendale, che spezza l’unità di azione tra i lavoratori delle aziende di uno stesso settore produttivo. La contrattazione aziendale può essere più propria a chi, seguace della «Quadradegimo anno», vuole il passaggio dal contratto di salario al contratto di società. E’ stato un ripiegamento, quello di Di Vittorio su tale questione, dovuto - ne sono persuaso - a necessità più che a convinzione. E l’ultimo periodo della «vita sindacale» Di Vittorio, a veder bene, si incentra nella sua attività parlamentare, membro autorevole della Commissione del lavoro, non attorno ai tavoli delle trattative sindacali. L’accordo nazionale sul «conglobamento» del giugno 1954 lo trova tagliato fuori dalla conclusione finale. Gli industriali hanno avuto buon gioco nell’allontanarlo. E da parte industriale si assecondò ormai ogni tentativo per respingere l’«intervento giuridico» nelle questioni sindacali. Meglio, per ora, regolare i lavoratori sul terreno dei rapporti di forza. La verità è che i lavoratori sono oggi più temuti per la «scheda» che non per lo «sciopero»: di qui il dramma finale del sindacalista Di Vittorio. Egli sentì di dover ritornare ad essere, come agli inizi, apostolo di una coscienza fra i lavoratori, per restituire con l’unione e con la solidarietà, una forza al sindacato e fare del sindacato una scuola. Ricominciare da capo. Per questo hanno particolare valore le ultime parole pronunciate a Lecco. Egli che aveva pur contribuito coi grandi accordi sindacali del ‘45, ‘46, ‘47 a determinare una forza sindacale, per un errore di valutazione, per un eccesso di fiducia in una CGIL incrollabile, è ormai costretto ad agire più che sul terreno specificamente sindacale su un terreno di competizioni elettoralistiche per le votazioni delle Commissioni interne. Egli deve perciò proporsi di sostituire a un diminuito «potere sindacale», un sufficiente «potere politico», e ricominciare da capo, propagandando idee per rifare una coscienza sindacale ai lavoratori, per ottenere che a una attivizzazione sindacale si accompagni una attivizzazione politica. Di Vittorio è stato «sindacalista» per vocazione. Aveva fiducia in sé e nei lavoratori. Accade però al sindacalista, come può accadere al politico, di compiere l’errore di non proporzionare gli strumenti secondo i tempi. Lo strumento che rende al massimo in un certo momento può rendere molto meno successivamente, e allora il problema sta nel munirsi di altri strumenti di scorta per far continuare la marcia al movimento sindacale e operaio. La scomparsa di Di Vittorio coincide con una fase critica del movimento sindacale italiano; e per un certo aspetto la aggrava. Ma la sua lezione sta nel dirci che solo attraverso l’azione congiunta, anche se distinta, degli strumenti sindacali e politici si potrà superare l’attuale fase critica. L’esperienza vissuta da Di Vittorio lo può ben insegnare.

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