Solo chi aveva conosciuto Di Vittorio prima
dell’emigrazione poté misurare lo sviluppo che le qualità umane, politiche e
culturali accumulate durante la giovinezza avevano subito attraverso le lotte e
i cimenti della lunga cospirazione. Avevo conosciuto Di Vittorio nell’inverno
del 1926, immediatamente dopo la promulgazione delle leggi eccezionali,
allorché, colpito da mandato di cattura era nascosto nella casa di mia madre
attendendo il suo turno per l’espatrio clandestino; e in quel tempo portava
impresse e direi parlanti in tutto il suo essere le caratteristiche
dell’agitatore di razza. Chi lo rivide nel 1945 non tardò ad accorgersi che
l’agitatore sindacalista era divenuto un grande capo politico. Colpiva siffatta
trasformazione, anche negli aspetti esteriori (ma quanto significativi!) della
parlata e nell’aspetto fisico che andava assumendo quella composta espressione
di forza cosciente e controllata che mi richiamava suggestivamente la figura di
Pietro nell’affresco di Masaccio all’Annunciata.
Questa sua
maturata qualità di capo politico, trovò nella grande campagna di preparazione,
di impostazione e di sviluppo del “Piano del lavoro” l’occasione e,
insieme, l’ambiente più congeniale per offrire la massima misura di sé. A
chi ritorna col pensiero a quegli anni, del resto recenti, ma arricchito
dall’esperienza di tutto ciò che in fatto di organica politica, economica e di
tentativi di pianificazione, si è discusso, fatto e soprattutto non fatto in
Italia, può, oggi, apparire ovvio l’impegno assunto allora dalla CGIL sotto
l’impulso preminente di Di Vittorio; cioè quella via può apparire come dettata
naturalmente dalle cose e perciò non necessitante alcuna lotta politica di
fondo. A tal punto taluni fondamentali criteri di politica economica
democratica sono divenuti oramai perfino banali.
Ma così non era attorno agli anni ’49-‘5O: sicché il
lancio del Piano del lavoro, come politica capace di impegnare l’intera classe
operaia, i contadini e gli strati sfruttati dei ceti medi, rappresentò una vera
e propria scelta politica, la conclusione di una difficile e a lungo incerta
lotta politica. Chi ne volesse la prova, potrà trovarla nel fatto che quei problemi
di indirizzo e di metodo senza la cui soluzione preventiva la politica del
Piano di lavoro sarebbe stata letteralmente impossibile, sono stati a lungo, e
sono in parte ancora, all’ordine del giorno di altri movimenti operai nazionali
nei paesi capitalistici, e ne costituiscono ancora in vario modo la
problematica.
Ai tanti che
ancor oggi vedono in quella politica un mero espediente sia pur geniale per
“forzare” una situazione di chiusura per la classe operaia quale si era
verificata dopo il 1948 (e sarebbe già non piccolo merito), o come una trovata
trasformistica per rovesciare un corso politico scarsamente redditizio, si può
offrire, come tema di riflessione la difficile lotta che la CGIL con alla testa
Di Vittorio sostenne non solo prima ma anche dopo l’adozione
della politica del Piano, per giustificarla e raccomandarla innanzi a tutto il
movimento operaio internazionale. Basta rileggere il dibattito intervenuto al
congresso sindacale mondiale di Vienna per ricavarne la misura e l’importanza
della scelta fatta dal movimento sindacale unitario italiano. Basta ancora
confrontare i dibattiti intervenuti nei due ultimi congressi nazionali della CGT
francese (e specialmente nel penultimo) con quelli dei congressi confederali
italiani (Napoli e Roma) sul problema, appunto, della adozione da parte dei
sindacati operai di una linea di politica economica accanto alla tradizionale
politica rivendicativa, perché appaia in tutta la sua chiarezza la posizione di
avanguardia, e in certo momento addirittura di punta, assunta dalla CGIL.
Non credo di
indulgere alla commozione, che suscita in me il ricordo di una collaborazione
intensa nel momento forse più felice e produttivo della travagliata vita di Di
Vittorio, se affermo che senza di lui quella scelta e quella politica non
sarebbero state possibili. Certamente esse risultarono da un concorso di
contributi assai diversi e distanti: ma colui che rese organici quei
contributi, che li ridusse alla ragion comune del movimento operaio, che li
impose ai riluttanti e ai diffidenti gettando generosamente sul piatto della
bilancia il peso di una ineguagliata autorità morale, prima ancora che
politica, fu Giuseppe Di Vittorio.
Quando nel marzo 1950, al convegno sul Piano del
lavoro, nel teatro romano delle Quattro Fontane, nel pieno della guerra fredda
e della offensiva padronale e governativa contro il movimento operaio, si
videro economisti, studiosi, sindacalisti, parlamentari, ministri in carica di
ogni parte venire a “fare i conti” col movimento sindacale unitario e con la
CGIL, apparve chiara a tutti la straordinaria fecondità di quella iniziativa.
Fu un trionfo, anche personale, per Di Vittorio, per la tenace volontà, per la
straordinaria capacità di lavoro che erano riuscite a mettere l’organizzazione
unitaria dei lavoratori all’avanguardia dello sviluppo democratico nazionale.
Il nome di
Di Vittorio perciò resta legato intimamente a quello che fu forse l’esperienza
più produttiva e il momento più felice del movimento sindacale italiano,
esperienza per altro ancora assai lontana dal potersi dire esaurita. Anche qui
perciò Di Vittorio ci ha lasciato una eredità, non solo di memorie, che tocca a
noi non disperdere e far fruttificare.
Commenti
Posta un commento