Lo Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori di Giuseppe Di Vittorio (da «Lavoro», n. 43, 25 ottobre 1952)
La proposta da me
annunciata al recente Congresso dei Sindacati chimici – di precisare in uno
Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende – ha
suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria. Il
Congresso della Camera del Lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo
Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare
che la nostra proposta, quantunque miri sopratutto a risolvere la situazione
intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si
riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione.
Le prime reazioni padronali alla nostra proposta sembrano, invece, per lo meno
incomprensibili. «Il Globo», infatti – giornale notoriamente ispirato dagli
ambienti industriali – pretende che io, avanzando la proposta dello Statuto,
avrei dimenticato «troppe cose». Che cosa? Ecco: «che gli stabilimenti non sono
proprietà pubblica ma ambienti privati di lavoro nei quali l’attività di tutti,
dirigenti e imprenditori compresi, è vincolata e coordinata al fine produttivo
da raggiungere»; che esistono i contratti di lavoro, «nei quali sono previsti i
doveri e i diritti dei lavoratori nell’ambito del rapporto contrattuale»; che
esistono le Commissioni interne, ecc. ecc. È giusto. Tutte le cose che ricorda
«Il Globo» esistono; e nessuno lo ignora. Il giornale degli industriali, però,
dimentica un’altra cosa, che pure esiste: è la Costituzione della Repubblica,
la quale garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di
diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei
confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale
stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi
per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di
proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per
questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone
all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non
diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui
questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro,
l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti
dai cittadini della Repubblica italiana. Se i datori di lavoro avessero tenuto
nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile – e agissero in
conseguenza – la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe
dovuto sorgere. Il fatto è, invece, che numerosi padroni si comportano nei
confronti dei propri dipendenti come se la Costituzione non esistesse. Si
direbbe che la parte più retriva e reazionaria del padronato (la quale non ha
mai approvato la Costituzione, ma l’ha subita, a suo tempo, solo per timore del
«peggio»), mentre trama per sopprimerla, l’abolisce, intanto, all’interno delle
aziende. L’opinione pubblica ignora, forse, che in numerose fabbriche s’è
istaurato un regime d’intimidazione e di terrore di tipo fascista che umilia e
offende i lavoratori. I padroni e i loro agenti sono giunti al punto d’impedire
ai lavoratori di leggere il giornale di propria scelta e di esprimere una
propria opinione ai compagni di lavoro, nelle ore di riposo, sotto pena di
licenziamento in tronco. Si è giunti ad impedire ai collettori sindacali di
raccogliere i contributi o distribuire le tessere sindacali, durante il pasto o
prima e dopo l’orario di lavoro. Se durante la sospensione del lavoro,
l’operaio legge un giornale non gradito al padrone, o l’offre a un collega,
rischia di essere licenziato. Si è osato licenziare in tronco un membro di
Commissione Interna perché durante la colazione aveva fatto una comunicazione
alle maestranze. Si pretende persino che la Commissione Interna sottoponga alla
censura preventiva del padrone il testo delle comunicazioni da fare ai
lavoratori. Peggio ancora: si è giunti all’infamia di perquisire gli operai
all’entrata della fabbrica, per assicurarsi che non portino giornali o altri
stampati invisi al padrone. Tutto questo è intollerabile. E tutto questo non è
fatto a caso, né per semplice cattiveria. Tutto questo è fatto per calcolo; è
fatto per affermare e ribadire a ogni istante, in ogni modo, l’assolutismo
padronale onde piegare il lavoratore a uno sforzo sempre più intenso, a un
ritmo di lavoro sempre più infernale, alla fatica più massacrante, sotto la
minaccia costante del licenziamento. E tutti sono in grado di misurare la
gravità di questa minaccia, in un Paese di disoccupazione vasta e pertinente
come il nostro. È un fatto che l’instaurazione di questo assolutismo padronale
nelle fabbriche è accompagnata da un aumento crescente del ritmo del lavoro. Il
supersfruttamento dei lavoratori è giunto a un tale punto da determinare un
aumento impressionante degli infortuni sul lavoro (anche mortali) e delle
malattie professionali, come abbiamo ripetutamente documentato. Soltanto nelle
aziende della Montecatini abbiamo avuto 35 morti per infortuni in un anno!
Questa situazione non è tollerabile. Bisogna ripristinare i diritti democratici
dei lavoratori all’interno delle aziende e porre un limite a queste forme
micidiali di supersfruttamento. Intendiamoci bene: noi non siamo contro la
necessaria disciplina in ogni lavoro; ma deve trattarsi della disciplina
normale, umana. Non contestiamo affatto che il lavoratore, durante le ore di
lavoro, abbia lo stretto dovere di adempiere al suo compito professionale. E
noi sappiamo bene che la generalità dei lavoratori concepisce l’adempimento
scrupoloso del proprio dovere come primo fondamento della propria dignità
professionale. Ma fuori delle ore di lavoro durante il pasto, prima dell’inizio
del lavoro e dopo la cessazione, i lavoratori sono, anche all’interno
dell’azienda, liberi cittadini, in possesso di tutti i diritti garantiti agli
altri cittadini, per cui hanno l’incontestabile diritto di parlare, di
esprimere liberamente le loro opinioni, di distribuire le tessere della propria
organizzazione, di collettare i contributi sindacali, ecc. ecc., così come
hanno il diritto di farlo fuori della fabbrica. Il «vincolo contrattuale» con
l’azienda – di cui parla «Il Globo» – è un vincolo di lavoro, non di coscienza.
Ottenuto il lavoro dovuto dall’operaio, il padrone non deve pretendere
null’altro. Naturalmente, le minacce e gli abusi di cui sono vittime
quotidianamente numerosi lavoratori, danno spesso luogo a proteste collettive,
ad agitazioni, a scioperi. Se si continuasse ad andare avanti nel senso
deplorato, queste agitazioni sarebbero destinate a moltiplicarsi e a
generalizzarsi, dato che la situazione è giunta al punto estremo della
sopportabilità. Dalle fabbriche e da altri luoghi di lavoro si leva una
protesta unanime, accorata, come sorgente da un bisognodi respirare, di
sentirsi liberi, anche all’interno delle aziende. La nostra proposta tende a
risolvere la questione in modo pacifico e normale, mediante l’adozione d’uno
Statuto che, ribadendo i diritti imprescrittibili dei lavoratori, non dia luogo
né agli abusi lamentati, né alle agitazioni che ne conseguono. E poiché si
tratta d’un interesse vitale e generale di tutti i lavoratori, senza
distinzioni di correnti, riteniamo perfettamente possibile un accordo con le
altre organizzazioni sindacali, sia nella formulazione dello Statuto che
propugniamo, sia nell’azione da svolgere per ottenerne l’adozione.
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