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Bruno Trentin sulla morte di Giuseppe Di Vittorio

Mia Franchina, dopo un lungo silenzio posso scriverti e tramite te anche a Mario.  Quest’ultimo periodo è stato convulso e sconvolgente, per me. Prima, il Congresso di Lipsia, con tutte le discussioni e le battaglie che ha comportato. Poi una serie di riunioni e di conferenze in Italia – compresa la commissione elettorale del partito di cui faccio parte e dove si sono riaperte vecchie ferite dell’VIII Congresso. […]
La morte di Di Vittorio ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito.
Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e – retorica a parte – semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre “provocatorio”, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta – e in questi ultimi tempi, spesso – questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun “sistema”, in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente “la sua ragione d’essere”.
Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana “la ricchezza che poteva essere prodotta” – e che non lo era – piuttosto che la “povertà” esistente. Ed era l’idea della “ricchezza” ad entusiasmarlo.
Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre “al corrente” delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come CGIL, di venir “escluso”, di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea.
Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ “populistica” e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno.
Capisco, ora che è morto, quanto io l’amassi. Purtroppo non c’è nessuno del suo calibro a sostituirlo, i migliori hanno un respiro molto più modesto. Gli ultimi giorni sono stati occupati come puoi immaginare dalle discussioni sulla “successione”. Sembra che sia stata adottata la soluzione migliore: quella di sostituire Di Vittorio non con un uomo ma con una nuova segreteria, con un collettivo di uomini nuovi, dopo aver eliminato tutte le “zavorre”, tutte le mummie. Se si otterrà questo risultato, avremo fatto un grande passo in avanti. [….]

Roma,  27 novembre 1957


Lettera di Bruno Trentin alla sorella Franca, pubblicata in Sante Cruciani (a cura di), Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese, Roma, 2012 e conservata in Archivio storico CGIL nazionale, Fondo Bruno Trentin. Terzo versamento

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