Salgo da Porta Pia, piano e un poco
svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici:
tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus,
le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di
clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta
lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul
monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori.
Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e
non giovani.
C’è un vento magro di autunno, con una
luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori,
attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là
del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada
passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia
tra loro e la folla.
Tutto pare come sospeso, rimandato:
anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma
intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie.
Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi
sembra di essere in un’altra città.
Il Corso d’Italia è in curva, sotto le
mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si
guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto
silenzioso: “Vengono spontanei….”. E guarda, umile, la folla degli uguali a
lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno
spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno
dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si
sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto,
appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo
giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e
guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei
due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci
sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con
la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di
Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini.
Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le
corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra.
Migliaia e migliaia di uomini e di
donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli
buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati
dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono
stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti
hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la
prima volta che Roma si presenta sotto questa luce.
Rovesciati qui, dal silenzio che ne
avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente
dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha
mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito
questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta
parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi
al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo
e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo
dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata
gratitudine.
Passa la banda, passano altre corone, a
decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte
braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio
pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono
davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno
dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso
in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno,
una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va.
Guardo quelle schiene un po' deformate dalla fatica, sotto i panni quasi
festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una
infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue
difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un'esistenza ridotta ai puro
pratico, e spesso solo all'animale, dalla corruzione dei quartieri dove
vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le
braccia tese s'abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade
dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la
guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come
in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con
una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare
le lacrime di cui hanno pieni gli occhi.
Pier Paolo Pasolini, Roma così
non l'avevo mai vista, «Vie nuove», n. 45, 16 novembre 1957, p. 21
Commenti
Posta un commento