Passa ai contenuti principali

LA CAPITANA CONTRO IL CAPITANO - di Ilaria Romeo

Il 12 giugno 2019 la nave Sea-Watch raccoglie 53 migranti nel Mediterraneo al largo della costa libica, dirigendosi verso Lampedusa dopo aver respinto un’offerta di attracco a Tripoli, considerata non sicura dall’UE e dalle organizzazioni umanitarie. 

Il 14 giugno, l’Italia chiude i suoi porti alle navi di salvataggio dei migranti. Solo dieci migranti, compresi bambini, donne in gravidanza e malati, sono autorizzati a sbarcare.

La situazione sulla Sea-Watch diventa sempre più difficile ed il 29 giugno, di fatto senza autorizzazione, la capitana Carola decide di attraccare.

La Rackete sarà arresta subito dopo l’ormeggio con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e resistenza a pubblico ufficiale. Trascorrerà quattro giorni agli arresti domiciliari, ma sarà rilasciata dopo una sentenza del tribunale che dichiarava non avesse infranto alcuna legge e che avesse agito per proteggere la sicurezza dei passeggeri, sentenza confermata in tutti i gradi di giudizio.

“Se Rosa Parks non si fosse seduta dove non poteva sedersi - diceva lo scorso anno il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - ci sarebbe ancora l’Apartheid. Mio padre mi ha sempre raccontato che ha dovuto fare una scelta: andare nella Repubblica Sociale o diventare partigiano per liberare il Paese, ci sono momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare e quando ci sono leggi sbagliate sarebbe intelligente cambiarle. Prima vengono le persone”.

Se tante saranno le manifestazioni di solidarietà a Carola, contro di lei si manifesterà la parte più becera del popolo del web e non solo.

«Spero che ti violentino 'sti negri, a quattro, a quattro….», è una delle tante frasi rivolte alla capitana al momento della discesa dalla nave, una frase che si ripete, di tastiera in tastiera sulle pagine Facebook e gli account twitter di tanti, troppi leoni.

La stessa, terribile, frase detta più volte a Laura Boldrini, Greta Thunberg, più recentemente a Silvia Romano, lo stesso terribile gesto perpretato contro Franca Rame.

C’è una ragione precisa per cui quando si deve insultare una donna si sceglie la minaccia più infamante, ovvero quella della violenza sessuale. Si chiama “cultura dello stupro”, ed è quella che ne legittima e normalizza l’abuso nella nostra società attribuendo la volontà agli uomini e la paura alle donne, alle quali non deve permesso agire o peggio ancora disobbedire, all’uomo, alla cultura egemone, al senso comune, alla morale politica o condivisa.
Perché il problema di fondo è che ancora oggi tanti uomini e tante donne - purtroppo - odiano le donne libere, semplicemente.

Le donne indipendenti, autonome, determinate, che scelgono dove vogliono andare, che lavoro vogliono fare, come preferiscono vestirsi, cosa vogliono o non vogliono dire, in quale Dio vogliono o non vogliono credere, magari anche con il sorriso e la serenità di chi è realizzato e felice.

Perché in fondo la donna casalinga, la donna fragile, poco istruita, dipendente tanto - se non in tutto - dal pater familias è ancora quello che in molti sognano, anche se nessuno avrebbe mai il coraggio di esporlo apertamente.

Questo machismo sotterraneo, inconscio spiega tante cose: spiega la pratica di usare internet per distruggere la donna che la vede in maniera diversa dalla nostra, spiega le scarse ed in fondo poco convinte prese di posizione di fronte alle folli affermazioni del senatore Pillon o ad un avvenimento come il ‘matrimonio’ di Indro Montanelli in questi giorni nuovamente salito agli onori della cronaca, spiega le nostre tiepide reazioni di fronte a canzoni o titoli di giornale che in un qualsiasi paese civile griderebbero vendetta e che invece da noi vengono accolti con un benevolo sorriso, una solidale pacca sulla spalla.

Del resto, non è una novità, “l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano, siano esse streghe o siano esse libere”.

Commenti

Post popolari in questo blog

Perché l’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano, siano esse streghe o siano esse libere

Ve le ricordate “le due Simone”? Simona Pari e Simona Torretta, rapite nel 2004 a Baghdad nella sede della Ong per cui lavoravano e rientrate a Fiumicino dopo cinque mesi e mezzo di prigionia. “Oche gulive” le definì un giornale (volutamente con l’articolo indeterminativo e la g minuscola!) commentando il desiderio delle due ragazze di ritornare alla loro vita normale precedente il rapimento. E Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due ragazze italiane rapite in Siria più o meno dieci anni dopo, ve le ricordate? Ve le ricordate ancora Carola Rackete, Greta Thunberg, Laura Boldrini, da ultima Giovanna Botteri? Cosa hanno in comune queste donne? Probabilmente tante cose, probabilmente nulla, ma una è talmente evidente da non poter non essere notata: sono state tutte, senza pietà e senza rispetto, lapidate sul web. Perché verrebbe da chiedersi? E la risposta che sono riuscita a darmi è solamente una: perché sono donne indipendenti, nel senso più vero ed intimo della parola. An

Franca Rame, Lo stupro

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore… Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare. Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando. Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso? Non lo so. È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me l

Nel suo volto la storia dei cafoni

Pepite d’Archivio: ancora Gianni Rodari su Giuseppe Di Vittorio in un NUOVO, bellissimo testo da leggere tutto d’un fiato. Il brano, recuperato da Ilaria Romeo (responsabile dell’Archivio storico CGIL nazionale che lo conserva)  è tratto da «Paese Sera» del 3 novembre 1977 “Il 3 novembre del 1957 moriva a Lecco, dove si era recato per inaugurare la sede della Camera del lavoro, Giuseppe Di Vittorio. Ricordo la commozione di quelle ore, mentre la salma veniva trasportata a Roma per i funerali. Ricordo quei funerali. Roma ne ha conosciuti di più grandiosi. Quello di Togliatti, anni dopo, ebbe le proporzioni di una gigantesca manifestazione di forza. Ma non si è mai vista tanta gente piangere come ai funerali di Di Vittorio. Anche molti carabinieri del servizio d’ordine avevano le lacrime agli occhi. La cosa non stupiva. Di Vittorio non era stato solo il capo della Cgil e per lunghi anni un dirigente tra i più popolari del Pci: era diventato un uomo di tutti, stava nel cuore de