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Contro tutto questo continueremo a lottare - di Ilaria Romeo

Il 23 giugno 1946 viene firmato a Roma il protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio. 

Le pattuizioni tra i due governi erano dettagliate e minuziose in merito al reclutamento e allo spostamento dei lavoratori, ma nulla fu mai scritto relativamente ai loro diritti, alla loro salute e sicurezza.

E infatti in miniera i morti saranno migliaia.

A causa di un errore umano, l’8 agosto 1956 il Belgio viene scosso da una tragedia senza precedenti. 

Un incendio, scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile di Bois du Cazier, causa la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità: 136 sono i minatori italiani (tra il 1946 e il 1956 più di 140mila italiani emigreranno in Belgio; l’accordo fra le due nazioni prevedeva l’esportazione da parte dell’Italia di 2mila uomini a settimana in cambio di 200 chilogrammi di carbone al giorno per ogni minatore).

Una sola parola: inferno, scriverà Gianluigi Bragantin sulle pagine di Lavoro venti giorni dopo la strage: “La grande maggioranza dei minatori italiani di Marcinelle, come di Charleroi e di Mons, di Testre e della Louvière, di Limburgo e di Liegi -preciserà il responsabile della Sezione stampa e propaganda della Cgil - sono militanti dei partiti proletari e della Cgil. Molti di essi hanno strenuamente lottato in Italia, nei loro villaggi e nelle loro fabbriche, in difesa del lavoro, prima di rassegnarsi a emigrare. Era gente così quella che è rimasta sotto, questa volta, sepolta nella miniera di Amercoeur, straziata dalle frane, divorata dalle fiamme, soffocata dal fumo e dai gas, votata a una morte fra le più orribili che mente umana possa concepire [...] Pittori di grande fama lo hanno dipinto. Ma bisogna andarci per capirlo fino in fondo, nel respirarne il clima, per sentirne l’oppressione. I villaggi, le strade, i baraccamenti si susseguono uno accanto all’altro e diventa impossibile distinguerli l’uno dall’altro. D’inverno le strade gelano, sono avvolte da impenetrabili brume, la neve si sporca di carbone: e minatori passano dai 45 gradi sottoterra ai 35 sotto zero alla superficie. La strada sulla quale cammini è della miniera, la casa che abiti della miniera, dei padroni della miniera è lo spaccio, il piccolo cinema, la ferrovia, il pullman, il terreno da costruzione, i mobili, i letti, il bar, la birra che bevi, il pane che mangi. Tutto è del patron. Se manchi un giorno dal lavoro l’affitto del mese ti viene conteggiato al 50% in più; se manchi due giorni ti viene raddoppiato. Se perdi una pala sotto una frana la devi pagare, se non capisci l’ordine di uno chef che parla in dialetto fiammingo prendi una multa che va a finire alla congregazione religiosa del luogo. Contro tutto questo lottavano i minatori morti a Marcinelle e contro tutto questo continueranno a lottare i loro compagni”.

Contro tutto questo, nelle campagne e nelle tendopoli del nostro paese, continuiamo quotidianamente a lottare, senza retorica, senza frasi ad effetto, senza gesti eclatanti o parole di circostanza.

“Lo so, cari compagni - diceva Di Vittorio nel suo ultimo, famosissimo, discorso - che la vita del militante sindacale di base è una vita di sacrifici. Conosco le amarezze, le delusioni, il tempo talvolta che richiede l’attività sindacale, con risultati non del tutto soddisfacenti. Conosco bene tutto questo, perché anch’io sono stato attivista sindacale: voi sapete bene che io non provengo dall’alto, provengo dal basso, ho cominciato a fare il socio del mio sindacato di categoria, poi il membro del Consiglio del sindacato, poi il Segretario del sindacato, e così via: quindi, tutto quello che voi fate, che voi soffrite, di cui qualche volta anche avete soddisfazione, io l’ho fatto. Gli attivisti del nostro sindacato, però, possono avere la profonda soddisfazione di servire una causa veramente alta”.

Una causa grande, una causa giusta che difficilmente regala interviste nei programmi televisivi alla moda o prime pagine sui giornali, ma che dona a tutti noi molto di più: l’orgoglio di ricostruire a piccoli passi un percorso collettivo di consapevolezza e dignità del lavoro, la consapevolezza del nostro ruolo sociale, politico, culturale, aggregativo, di riscatto, rivendicazione, conquista e difesa dei diritti. 

Un ruolo non sempre riconosciuto, ma costante ed attivo perché lavorare nella Cgil e per la Cgil, non è, non può essere un mestiere come un altro.

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