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Giustizia e libertà, per questo morirono, per questo vivono - di Ilaria Romeo

I fratelli Carlo e Nello Rosselli vengono uccisi, molto probabilmente per ordine dei servizi segreti italiani, il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, località a nord della Francia, da alcuni militanti di un’organizzazione di estrema destra francese (mandanti del duplice omicidio furono Benito Mussolini, suo genero Galeazzo Ciano ed alcuni ufficiali del Servizio informazioni militari, come provato dall’istruttoria giudiziaria condotta a Roma nel 1944-45).
“Due grandi figure - nelle parole del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano - dell’antifascismo italiano, che con il loro coraggioso impegno civile e politico avevano chiamato in tutta Europa alla mobilitazione e alla lotta contro i regimi totalitari, contribuendo a restituire all’Italia la libertà e la democrazia”.
Carlo e Nello Rosselli furono sepolti nel cimitero monumentale parigino di Père-Lachaise, ma nel 1951 i familiari ne traslarono le salme in Italia, nel Cimitero Monumentale di Trespiano a Firenze. Nello stesso cimitero sono sepolti Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Spartaco Lavagnini. La loro tomba riporta il simbolo della spada di fiamma, emblema di GL, e l’epitaffio scritto da Calamandrei: «GIUSTIZIA E LIBERTÀ, PER QUESTO MORIRONO, PER QUESTO VIVONO».
I fratelli Rosselli si trovavano in Normandia perché Carlo vi soggiornava per ricevere cure termali, dopo essere andato in esilio per evitare le persecuzioni fasciste e aver combattuto nella Guerra civile spagnola (suo fratello Nello lo aveva raggiunto da poco, dopo aver ottenuto il passaporto).
Una vicenda in parte simile a quella del futuro segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio.
Nel 1923, dopo la chiusura della Camera del lavoro di Bari, Peppino decide di trasferire la famiglia a Roma. Il 13 settembre 1925 lo arrestano. Scarcerato il 10 maggio 1926 non resta molto in libertà: subisce altri arresti che inducono il Partito comunista, cui ha aderito nel 1924, a farlo espatriare. All’estero Di Vittorio svolge un’attività intensissima. Dal 1928 al 1930 è in Unione Sovietica quale rappresentante della Confederazione del lavoro nell’internazionale sindacale. Poi è a Parigi, ove si dedica al lavoro di direzione della Confederazione del lavoro e all’attività di propaganda fra i lavoratori italiani in Francia. Nel 1936 è tra i primi a raggiungere la Spagna come combattente a difesa della repubblica. Rientrato a Parigi assume la direzione de La voce degli italiani, quotidiano degli antifascisti in Francia.
Scriveva il 17 giugno (postdatato al 19, nell’uso dei settimanali) il periodico del Partito comunista d’Italia in esilio Il Grido del Popolo: “Oggi, mentre una folla di italiani e di amici francesi accompagneranno al Père-Lachaise i Martiri ROSSELLI (tra di essi anche Silvio Trentin, ndr), La Voce degli Italiani, il quotidiano che l’Unione Popolare Italiana e l’Associazione ex - combattenti hanno voluto creare, vedrà la luce per la prima volta e dirà agli italiani la parola della lotta per far trionfare la causa della libertà. La Voce degli Italiani ha anticipato le sue pubblicazioni (in realtà il periodico vedrà la luce solo il mese successivo, ndr). Il nemico non ci ha dato il tempo di preordinare con maggiore cura questa iniziativa, che è una delle più importanti e delle più audaci iniziative degli italiani emigrati. L’orribile assassinio dei fratelli Rosselli - due dei più nobili esponenti dell’antifascismo e della cultura italiana - ci impone con tragica urgenza di intensificare, di infiammare la grande battaglia in difesa del nostro popolo rovinato da un pugno di assassini ridotti ad una mostruosa politica di affamamento, di guerra e di provocazioni” (nello stesso numero non passa inosservato il ritorno sulla carta stampata di Giuseppe Di Vittorio, dopo un’assenza di alcune settimane, con un articolo dal titolo I precedenti del provocatore Zanatta confermano che l’assassinio dei fratelli Rosselli è stato compiuto dall’O.V.R.A. Persistendo le incomprensioni tra PCd’I e Giustizia e Libertà scriveva l’omonimo periodico qualche mese più tardi: “Per ciò che riguarda la commemorazione di Carlo Rosselli, noi avremmo voluto che ad essa partecipassero, come era giusto, tutti gli antifascisti, ché l’opera di Carlo Rosselli, pur identificandosi con il nostro movimento, lo oltrepassa per essere opera di tutto l’antifascismo. Proponemmo, perciò, al Comité d’Aide aux victimes du fascisme italien, organizzazione influenzata dai comunisti, di assumere esso l’iniziativa di una riunione in cui prendessero la parola i rappresentanti di tutte le correnti politiche italiane. Davanti al rifiuto di ammettere alla parola i rappresentanti degli anarchici e dei massimalisti, rifiuto che si sarebbe potuto anche prestare a ogni sorta di interpretazioni ingiuriose e di speculazioni fasciste, preferimmo riprendere l’iniziativa per nostro conto e commemorare noi, con spirito largo e unitario, Carlo Rosselli”).
Le strade di Giuseppe Di Vittorio e dei Fratelli Rosselli si incroceranno nuovamente molti anni dopo.
Esattamente diciotto anni più tardi, il 2 novembre 1955, Firenze verrà tappezzata durante la notte da manifesti che, con intenti provocatori, accuseranno Giuseppe Di Vittorio di essere stato il mandante dell’assassinio. 
Della vasta riprovazione suscitata dal volgare attacco al segretario confederale si fa rà interprete Gaetano Salvemini con una lettera su Il Mondo. “Quel giornale murale -scrive Salvemini, fra l’altro professore di Nello nell’università del capoluogo toscano - è stato affisso dopo aver ottenuto il visto del signor questore di Firenze. Io presento ora al signor questore la seguente rispettosa domanda: se dei comunisti gli chiedessero il visto per un giornale murale in cui fosse affermato che Cesare Battisti fu impiccato da un boia che si chiamava Alcide De Gasperi, o che il ministro Scelba non può avere a tiro di mano una ragazza senza farle fare un figlio entro nove mesi, il sullodato signor questore darebbe l’autorizzazione?”.
Ebbene, prosegue lo storico, “il comunista Di Vittorio non ha diritto di essere rispettato nel suo onore non meno di De Gasperi buonanima, e di Scelba, che Dio gli dia cent’anni di buona salute? Se vi fosse in Italia libertà di stampa incondizionata, cioè se ognuno potesse appiccicare sui muri i giornali murali che meglio crede, il questore di Firenze non ci entrerebbe né punto né poco. Nel caso in questione penseremmo noi, amici di Carlo e Nello Rosselli, o penserebbe Di Vittorio, a mettere le cose a posto […]. Ma in Italia la libertà di affissione non c’è; il questore deve dare il suo visto ai giornali murali […]. Ho aspettato che qualcuno protestasse prima di me e mi risparmiasse la fatica di scrivere questa lettera. Ma visto che nessuno si muove, consenti, caro Pannunzio, che almeno su Il Mondo qualcuno dia segno di vita”.
L’indignazione pressoché generale per l’ennesimo nuovo esempio di malcostume politico costringe il ministro degli Interni a intervenire, facendo sequestrare il manifesto. Di Vittorio ringrazia Salvemini per il suo pungente intervento e ne segue tra i due uomini un affettuoso scambio di lettere. Così l’anziano antifascista risponde a una delle missive speditegli dal leader della Cgil: “Carissimo Di Vittorio, sono assai contento di apprendere dalla tua lettera che tu attendevi la mia sfuriata. Questo vuol dire che mi ritieni ancora vivo, sebbene io mi senta ormai più che quasi morto. Per scrivere bisogna che io sia preso da un eccesso epilettico, e questo ormai succede più raramente che ‘quando ero paggio del Duca di Norfolk’. Ma quella bricconata fiorentina mi avrebbe dato un attacco epilettico coi fiocchi anche se fossi stato morto e sotterrato. Tu dovevi disprezzare quelle sudicerie. Eravamo noi che dovevamo farci vivi. Ma siamo stati pochi a farci vivi!”.
Ormai, a giudizio di Salvemini, nell’Italia del dopoguerra “nessuno più si sdegna di niente”. “Tutto - commenta rassegnato - passa liscio come una lettera alla posta. Questo è il fenomeno che più mi sgomenta oggi. Sì, il governo, quando vuole, può arginare il malcostume. Ma chi si muove per svegliarlo quando dorma? Voi vi muovete, ma vi muovete sempre, e nessuno bada a voi. Siamo noi che ci dobbiamo muovere, al momento opportuno. Ma noi ci guardiamo l’ombelico. Di quante cose mi piacerebbe parlare con te a cuore aperto! Ma i miei 82 anni mi incatenano qui: ad allontanarmene farei dei guai. Mille buoni saluti, e ti prego, non darmi del ‘Lei’. Non ho ancora fatto nessuna cattiva azione, a parte la mia ‘ideologia’” (Salvemini morirà a Sorrento il 6 settembre 1957. Nell’ottobre 1961 la salma sarà trasferita da Sorrento a Firenze. Nonostante l’antica ruggine, Trentin darà “la sua più calda adesione alla iniziativa promossa per onorare la memoria di Gaetano Salvemini”, definendosi onorato di far parte del comitato promotore e impegnandosi a partecipare alla cerimonia).

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