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Lavorare meno, lavorare tutti - di Ilaria Romeo

Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare ….
Nel primo Congresso dopo la guerra la Fiom conta 47.192 iscritti e 102 sezioni.
Meno di un anno dopo, il 20 febbraio 1919, la Federazione firma con la Confederazione degli industriali un accordo per la riduzione di orario a 8 ore giornaliere e 48 settimanali (l’accordo prevede tra l’altro il riconoscimento delle Commissioni interne e la loro istituzione in ogni fabbrica; la nomina di una Commissione per il miglioramento della legislazione sociale e di un’altra per studiare la riforma delle paghe e del carovita).
Recita tra l’altro l’accordo: “Con l’approvazione avvenuta del Regolamento unico per tutte le Officine meccaniche, navali e affini, l’orario di lavoro viene ridotto rispettivamente da 55, 60 a 48 settimanali come indicato dall’art. 6 del Regolamento stesso. Per gli stabilimenti siderurgici tale orario viene ridotto da 72 a 48 ore, con l’adozione dei tre turni, come stabilito dall’art. 6 del Regolamento unico per gli stabilimenti stessi. Tali orari dovranno essere attuati non oltre il 1° maggio per le officine meccaniche, navali ed affini e non oltre il 1° luglio per gli stabilimenti siderurgici”.
Con il Regio Decreto 692 del 1923 (poi convertito nella legge 473 del 17 aprile 1925) l’orario di lavoro massimo di 8 ore giornaliere o 48 settimanali viene esteso a tutte le categorie (lo stesso provvedimento si preoccupava di fissare dei limiti anche al lavoro straordinario, rispettivamente in 2 ore giornaliere e 12 ore settimanali).
Recita l’articolo uno della legge: “La durata massima normale della giornata di lavoro degli operai ed impiegati nelle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere di istituti di insegnamento professionale o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori pubblici, negli ospedali, ovunque é prestato un lavoro salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere le otto ore al giorno o le quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo. Il presente decreto non si applica al personale addetto ai lavori domestici, al personale direttivo delle aziende ed ai commessi viaggiatori. Per i lavori eseguiti a bordo delle navi, per gli uffici ed i servizi pubblici, anche se gestiti da assuntori privati, si provvederà con separate disposizioni”.
La necessità della riduzione dell’orario di lavoro sarà sostenuta nel giugno del 1932 anche da un insospettabile presidente della Fiat Giovanni Agnelli in un’intervista all’United Press.
Posizione ripresa l’anno successivo, il 5 gennaio 1933, in una lettera al futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Recita la missiva – direi di una certa attualità – riprodotta sulla rivista «La Riforma sociale»: “Partiamo dalla premessa che in un dato momento, in un dato paese, ad ipotesi nella parte industrializzata di questo nostro mondo, vi siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro al giorno […] Sulla base di un dollaro, ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi, ed ogni giorno industriali ed agricoltori producono e mettono sul mercato 100 milioni di dollari di merci e servizi. Produzione, commercio, consumo, si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti.
Ad un tratto – in verità le cose si svolgono diversamente, per sperimenti vari e successivi; ma debbo semplificare – uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa; e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali promettono risparmio di lavoro e maggior guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate, risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono fuori 25 milioni di disoccupati. All’ingrosso, oggi vi sono per l’appunto 25 milioni di disoccupati nel mondo.
Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento tecnico.
Prima dell’invenzione occorrevano 100 milioni di giornate di lavoro di otto ore l’una fornite da 100 milioni di operai, ossia 800 milioni di ore di lavoro al giorno, a produrre una data massa di merci e servizi. Dopo l’invenzione bastano, per produrre la stessa massa di merci e servizi, 600 milioni di ore di lavoro. Ad otto ore al giorno, è bastevole il lavoro di 75 milioni di operai. Gli altri 25, disoccupati, consumano assai meno. La domanda si riduce al di sotto del livello precedente. Dopo un po’ basteranno 70 e poi 60 milioni di operai a produrre quanto il mercato richiede. E’ una catena paurosa che a noi pratici pare svolgersi senza fine, sebbene voialtri economisti ci abbiate abituati a credere che ad un certo punto si deve ristabilire l’equilibrio. Quel certo punto fa a noi l’impressione, soprattutto quando siamo sulla china discendente, di non arrivare mai. Il danno sembra a me derivare dallo sfalsamento esistente tra due velocità: la velocità del progresso tecnico, il quale dal primo al secondo momento ha ridotto di un quarto la fatica necessaria a produrre, e la mancanza di progresso nell’organizzazione del lavoro, per cui l’operaio che lavora seguita a faticare le stesse otto ore al giorno di prima. Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché, a produrre una massa invariata di beni e servizi, occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno, rimarranno occupati nel secondo momento per sei ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come olio colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi”.
La discussione sull’orario di lavoro – sostanzialmente ferma fino all’approvazione della Costituzione (recita l’art. 36: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi) – riprenderà negli anni Cinquanta e Sessanta ed i rinnovi contrattuali del ‘62-‘63 saranno caratterizzati – oltre che da altre importanti conquiste – da una rilevante riduzione dell’orario di lavoro settimanale (mediamente 44 ore, le 40 ore settimanali saranno conquistate tra il 1969 ed il 1973).
Da un punto di vista me raramente legislativo, per periodo di tempo lunghissimo la disciplina sull’orario di lavoro è stata dettata dal regio decreto legge 15 marzo 1923 n. 692.
Questa disciplina è stata soggetta a parziale revisione dalla legge 24 giugno 1997 n. 196 che, seguendo le linee guida tracciate dalla prassi della contrattazione collettiva, ha posto un tetto all’orario settimanale di lavoro di massimo di n. 40 ore settimanali ed in n. 8 giornaliere (il decreto legislativo 8 aprile 2003 n. 66 – emanato in attuazione delle direttive dell’Unione europea n. 93/104/CE e 2000/34/CE – abrogherà in parte la legge 196/1997, apportando significative modifiche alla disciplina generale dell’orario di lavoro).
Oggi da più parti una riduzione dell’orario di lavoro è proposta e auspicata.
Esattamente un anno fa il nuovo presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, in occasione dell’apertura del master in Economia pubblica alla Sapienza di Roma, affermava: “Siamo fermi in Italia all’ultima riduzione di orario del ’69-70 non ci sono riduzioni da 50 anni invece andrebbe fatta per aumentare l’occupazione e incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese. Gli incrementi di produttività vanno distribuiti o con salario o con un aumento del tempo libero”.
I più critici sostengono che la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario impatterebbe negativamente sulla produttività. Ma sempre più esperienze, dalla Svezia alla Svizzera, dimostrano esattamente il contrario. Anche Microsoft, che ha sperimentato in alcuni stabilimenti la settimana lavorativa di quattro giorni aumentando la produttività del 40%.
Lavorare meno, lavorare tutti? In molti hanno già risposto di sì.

Pubblicato anche su Fortebraccio il 20 febbraio 2020

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